Massimo Mucchetti, Corriere Economia 24/12/2012, 24 dicembre 2012
LA LEZIONE DELLA FIAT
Nella primavera del 2013 diventerà operativa la fusione tra la holding italiana Fiat Industrial, quotata a Milano, e la sua controllata di diritto olandese Cnh, gran produttrice di macchine agricole e movimento terra, quotata a Wall Street. L’operazione aveva suscitato qualche riserva tra i soci di minoranza americani che detengono il 12% del capitale della Cnh, ma è bastato alzare di qualcosa il premio loro concesso nel concambio delle azioni e a fine novembre si sono potute perfezionate le delibere. Non ha suscitato alcun interesse, invece, il fatto che, con questa operazione, gli Agnelli riserveranno a sé stessi e agli altri soci storici diritti di voto doppi rispetto a quelli attuali.
Controllo
Eppure, la circostanza dovrebbe allarmare i fautori della contendibilità delle società quotate ovvero incuriosire chi, ammaestrato dall’esperienza, non considera più la contendibilità un bene in sé. La fusione Fiat Industrial-Cnh dice qualcosa anche al governo, che magari vorrebbe vendere almeno una parte dei pacchetti azionari dello Stato in Eni, Enel e altre società ma al tempo stesso conservare l’attuale livello d’influenza. Ma la cultura e la politica sono, per così dire, distratte. Eppure, la questione delle «mani adatte» al governo delle grandi imprese industriali e finanziarie è destinata a tenere banco nell’Italia in saldo del 2013.
Ripartiamo dal fatto. Gli azionisti di Fiat Industrial e di Cnh conferiranno i propri titoli a una nuova holding di diritto olandese che avrà due classi di azioni: la prima dotata di due voti, la seconda uno; entrambe avranno diritto allo stesso dividendo e, in caso di vendita, le azioni a voto doppio diventeranno azioni a voto semplice. Le azioni a voto doppio sono riservate ai soci che parteciperanno all’assemblea. I nuovi potranno ambire ad avere anch’essi azioni a voto doppio, se non venderanno per almeno 3 anni. In tal modo, la holding suprema degli Agnelli, la Exor, che è presieduta da John Elkann, avrà meno del 30% del capitale circolante della nuova Fiat Industrial ma ben più del 30% dei diritti di voto, almeno fino a quando conserverà lo stesso numero di titoli di oggi.
Le azioni a voto multiplo non sono previste dal Codice civile italiano, che invece consente l’emissione di azioni di risparmio, senza diritto di voto nelle assemblee e una piccola maggiorazione del dividendo, e di azioni privilegiate, che votano solo nelle assemblee straordinarie. Nei Paesi anglosassoni, ma anche in Olanda, le azioni a voto multiplo sono invece largamente diffuse. In tutte queste tradizioni giuridiche, nostrane e non, avere diverse classi di azioni offre alle società l’opportunità per raccogliere capitali senza costringere gli azionisti preesistenti a versare la loro parte per non essere diluiti. Negli anni Ottanta, i soliti noti abusarono delle azioni di risparmio: ne emisero troppe e, non di rado, le associarono a piramidi societarie che restituirono attualità agli strali di Luigi Einaudi contro i furbi che comandano con i soldi degli altri. Negli anni Novanta e ancora dopo, il riformismo liberista mitizzò la contendibilità delle imprese come precondizione dell’efficiente gestione delle imprese, e dunque venerò a lungo l’Opa ostile come igiene del mondo finanziario. Di qui un certo ostracismo intellettuale, prim’ancora che pratico, verso le azioni di classe diverse: solo le azioni ordinarie, la cui maggioranza determina il controllo dell’impresa, avevano pieno titolo di cittadinanza. Ma con il tempo quello schema riformista ha mostrato la corda. Per due ragioni.
La prima ragione è che l’Opa ostile non sempre viene fatta per scalzare un management e un azionista inadeguati, anzi spesso il bersaglio è una società ottima e pertanto passibile di spoliazione. Le società in difficoltà, bisognose di capitali e di un migliore management, spesso non interessano al mercato finanziario.
Alcune banche, per esempio, sono state oggetto di Opa ostili sia nel 1999 sia nel 2005. Non lo sono state dal 2008 in avanti. Nel 1999 e nel 2005 la Borsa valutava bene i titoli bancari, anche troppo come rivelano i bilanci della Banca di Roma e della Comit della fine del secolo. Nel 2005 la Bnl e l’Antonveneta divennero oggetto di aspre contese sulla base di valutazioni fin troppo generose. E poi, tra il 2008 e il 2012, con le quotazioni bancarie ai minimi, i gruppi dirigenti contestabili, gli azionisti delusi, nessuno si è fatto avanti a dire: ecco, una bella Opa ostile e voltiamo pagina. Per Telecom Italia, che quasi non aveva debiti e già aveva margini elevati, l’Opa ostile c’è stata. Ma questo caso, poi, basta e avanza ad avvertire che, lungi dal riceverne una spinta positiva, la società bersaglio di un’Opa ostile, specialmente se finanziata a debito, si ritrova con le ali spezzate dal nuovo padrone. Il mercato deregolato dei diritti di proprietà può essere buono per gli azionisti, non necessariamente per gli altri stakeholder dell’impresa.
La seconda circostanza che mina il riformismo basato sulla contendibilità è la reazione dei gruppi familiari e delle alleanze tra soci che esercitano il controllo di diritto o di fatto sulle imprese. Per non perdere le loro posizione di potere, costoro evitano le fusioni tra imprese a prescindere da ogni giudizio di merito e non varano aumenti di capitale per fare investimenti più grandi di quelli possibili attraverso l’autofinanziamento eventualmente integrato da una certa dose di debiti finanziari.
Insomma, per conservare il proprio potere, non si azzardano quei balzi in avanti che comporterebbero lo sviluppo dell’impresa e la diluizione dei soci eccellenti. Un tale conservatorismo è criticato dalla Consob e dalla stessa Banca d’Italia nelle loro relazioni annuali. Ma si tratta di prediche inutili se non sostenute da correzioni normative. Del resto, è la stessa Banca d’Italia a porsi il problema delle «mani adatte» a cui affidare le sorti delle imprese più importanti quando il governatore Ignazio Visco decide di affidare alla Cassa Depositi e Prestiti il 4,5% delle Generali, detenuto dal Fondo pensioni della Banca d’Italia, e non di metterlo all’asta come avrebbe fatto un qualsiasi altro venditore interessato all’incasso massimo. E poi a porre paletti alla stessa Cassa nel timore che possa diventare un soggetto attivo a Trieste, come, a parità di condizioni, sarebbe stato l’antico Iri di Alberto Beneduce.
Ipotesi di lavoro
Prendendo spunto dalla manovra degli Agnelli, non contestata dagli adepti dell’Opa ostile, vale dunque la pena di ragionare sull’opportunità di introdurre o meno su scala più larga le azioni a voto multiplo per stabilizzare la governance delle grandi imprese quotate e, al tempo stesso, consentire loro di accedere a maggiori capitali di rischio, conquistandoli con la remunerazione ordinaria e non con la valorizzazione da scalata. La faccia negativa di questa medaglia è che, in tal modo, conserverebbero il potere anche capitalisti senza capitali non di rado interessati a spremere le imprese da loro governate con remunerazioni e stock option, quando non con l’uso improprio dell’ufficio acquisti. Per ovviare a questo rischio andrebbe forse limitata l’introduzione di queste azioni a società che stanno varando operazioni di sviluppo e che hanno forme di governance capaci di rappresentare non solo l’intera compagine azionaria ma anche gli altri stakeholder, a cominciare dai dipendenti.