Andrea Cortellessa, TuttoLibri - La Stampa 29/12/2012, 29 dicembre 2012
«IO, UN FILM COME LA BELLA DI COCTEAU»
Arrivando a casa di Giosetta Fioroni, tana segreta stillante pioggia in riva al Tevere, ogni volta esito prima di suonare il campanello: sopra il quale brilla ancora la targhetta FIORONI-PARISE. La casa è piccola, si cammina fra muri che grondano colori smaltati e nostalgici. Giosetta saltella oggi come quando quarant’anni fa Parise, proprio, la descriveva camminare «in modo leggero come camminavano le ragazze degli anni cinquanta quando andavano a scuola o a un ballo pomeridiano in casa d’amiche». Che incontrarla significhi in qualche modo fare un’escursione fuori dal tempo lo conferma l’ultima immagine che mi ipnotizza prima di uscire, una grande foto di Plinio De Martiis che la ritrae, a Sperlonga nel 1963, in compagnia di Cy Twombly. Gli occhi di Twombly guardano fuori dall’inquadratura; Giosetta invece – maglioncino nero esistenzialista e morbidi hot pants, abbronzata, i capelli corti un po’ in disordine – guarda dritta in camera. Non so spiegare perché mi commuova tanto, questo suo sguardo. Se ci riuscissi sarei un po’ come Parise, forse. Lei mi guarda guardarla, oltre il muro del tempo, in quella fine d’estate lontana mezzo secolo – e commenta divertita: «sì, ero graziosa». Il prossimo 24 dicembre, come il puer virgiliano, Giosetta compie ottant’anni – e so che non gradisce troppo parlare di questo. Nel suo caso, per una volta, è però vero quello che ripetono sempre, narcisi, gli ottantenni illustri: che hanno per la quarta volta vent’anni. Per lei, anzi, è più corretto dire che ne compie per l’ottava volta dieci. L’ultima mostra, al Macro, s’intitola «L’altra ego» ed è stata realizzata insieme a Marco Delogu, come dieci anni fa Senex: in entrambi i casi Giosetta si maschera e si traveste, lasciandosi proiettare su archetipi figurativi e letterari con effetti divertiti e, talora, perturbanti. Ma quella del travestimento e del teatro è una sua passione da sempre. «È vero, sin da bambina ho avuto un forte senso del teatro e del travestimento, mia mamma dipingeva ed era una marionettista. Metteva su dei teatrini fatti in casa, con un boccascena di 50-60 cm, tirava una tendina tra due stanze, il pubblico era da una parte e dietro c’era il mistero. Una volta fece un lupo di Cappuccetto rosso con uno chiffon nero con un rubino al posto dell’occhio che a ogni movimento mandava come dei lampi, e alcuni di noi bambini che assistevamo allo spettacolo restarono assai turbati… Molti anni dopo, nel 1965, Goffredo mi portò ad Albano Laziale, dove abitava Guido Ceronetti, a vedere il suo teatrino. Aveva allestito per noi due spettacoli, uno ambientato in una Londra notturna con rumori di pioggia… una cosa meravigliosa. Divenimmo molto amici e ho realizzato per lui, poi, una quantità di locandine, marionette e pupazzi». La matrice di tutto il suo lavoro resta quest’infanzia indimenticabile. «Da una parte c’era la vita di tutti i giorni – la scuola, che trovavo grigissima – e dall’altra la vita vera, in famiglia. Mia madre mi aveva chiamata Giosetta perché aveva visto La Bella e la Bestia di René Clément e Jean
Cocteau, dove l’attrice che interpretava Bella si chiamava Josette Day, una svampita incantevole. Aveva anche provato a registrami all’anagrafe con questo nome, ma all’epoca non glielo permisero. Poi ho letto Vladimir Propp, le radici storiche della fiaba di magia tutto quel mondo fantastico delle fiabe russe». I libri hanno sempre contato tanto, nella sua vita. «Ho cominciato a leggere verso i quindici anni, piuttosto tardi, ma non ho più smesso; sono una lettrice disordinata, però dai libri si può prendere un grande nutrimento. Quello che ho sempre provato a fare è estrarre da incontri, da amicizie, da cose lette una sintesi che abbia un senso... Traccia e apparizione sono le parole chiave. Provo a portare piccoli eventi, piccole cose, a una definizione inaspettata ricostruita a modo mio. Per esempio il modo in cui uso l’argento, la superficie argentata, vorrebbe rinviare sempre alla memoria… recupero e sospensione di tempi differenti… si può pensare al frammento fotografico, alle pellicole cinematografiche e all’uso che vi si fa del nitrato d’argento». L’elenco degli amici scrittori è lunghissimo: anzitutto Parise, certo, e poi Zanzotto, Ceronet ti, Manganelli, Arbasino, Bale strini, Garboli, Lombardi... «Con Germano Lombardi abbiamo vissuto sette anni insieme, tra Parigi e Roma. A Parigi fra il ’58 e il ’62 la sera uscivamo con un gruppo di artisti newyorkesi, andavamo in un piccolo bar seminterrato dove trovavamo Beckett che da solo si beveva mezza bottiglia di whisky. A me faceva impressione che d’inverno Beckett non indossasse le calze, guardavo le sue caviglie, erano blu dal freddo… Alla fine ce ne tornammo a Roma». E, come a Parigi pochi anni pri ma, si trova a Roma negli anni giusti… «C’era questo gruppo di pittori, amici, davvero notevoli. I più vicini erano Schifano, Angeli e Festa, tutti abbastanza belli e dannati, persone piene di talento e seducenti !». Forse la cosa a cui si può pensa re, in riferimento soprattutto a Warhol, era questa specie di onda del presente su cui vi muovevate… «A quel tempo spesso la partenza di un quadro per me era una foto o un ritaglio di giornale che si poteva proiettare sulla tela, per questo si poteva pensare a Warhol. Ma le mie immagini all’alluminio erano dipinte colla simpatia artigianale del pennello… niente a che vedere col distacco industriale di Warthol! Il Pop è una cosa americana, io col Pop ho poco a che fare, i miei sono ideogrammi di malinconia». C’èunadefinizionechedeisuoi lavori ha dato Garboli, come «piccoli cimiteri del meraviglio so», una definizione molto bel la e molto cattiva. «È una memoria che si nutre di tante cose, c’è tutta una tradizione di pittura italiana, Morandi per esempio… una tradizione rubata ma intrecciata alla memoria, legata di solito a delle letture. Ma anche quando guardo al presente è come se lo facessi attraverso uno schermo, lo schermo incantevole della nostalgia. Ci sono quei versi di Baudelaire che mi sono sempre stato cari, Le crépuscule du matin : “Comme un visage en pleurs que les brises essuient, / L’air est plein du frisson des choses qui s’enfuient…». Nell’«Altraego»dipingesestes sa come una sua opera. C’è una componentedipittura,nellare alizzazione delle maschere, dei costumi, dei fondali… «Sì, io le considero assolutamente delle mie opere… in una delle foto ho due bambolotti di ceramica focomelici attaccati a una tetta finta di cartone, tutto un set di cose rubate al corredo di mia nonna… l’abbigliamento è reale… oppure in un’altra che si chiama, La lingua salvata , c’è quest’ebrea con una grande parrucca di ricci bianchi… mi riferisco a grandi scrittori ebrei come Chaim Potok o Isaac Singer». Questa esigenza di fare sempre riferimento alla scrittura mi ri corda una cosa che ha scritto Zanzotto di Ungaretti, scom ponendo il termine «autobio grafia» nelle sue componenti, – auto – bio – grafia – «da riper correre nei due sensi, da patire nei due sensi, all’infinito». An che nella parola «fotografia» le due componenti reagiscono l’una sull’altra… «Prima dei libri c’è sempre la mia passione per la scrittura a mano, per l’ideogramma e la calligrafia emotiva. Amo la chiarezza. E certo anche la luce lascia una traccia: come il tempo che passa sui nostri volti, sui nostri corpi».
«Quando Parise mi portò a vedere il teatrino di Ceronetti: sarà una grande amicizia» «Guardo come attraverso lo schermo della nostalgia: ricorda Baudelaire?»