Francesco Grignetti, La Stampa 29/12/2012, 29 dicembre 2012
IL PREMIER RICHIAMA LO SCERIFFO BONDI
Largo al tagliatore di budget. Il commissario straordinario Enrico Bondi, l’uomo che ha fatto tremare la pubblica amministrazione quando gli hanno messo in mano le forbici della spending review con l’obiettivo di risparmiare 5 miliardi di euro in qualche mese, e che da settimane procede senza paura a cancellare letti e reparti negli ospedali del Lazio, incurante di proteste e lamentele, ora è chiamato a una nuova ciclopica impresa. Sarà lui a valutare i candidati delle liste elettorali del Centro. Non una valutazione «politica», ci ha tenuto a precisare Monti, «quanto una “due diligence”, cioè la verifica dei requisiti di conformità dal punto di vista penale o di possibili conflitti di interesse dei candidati».
La possibilità di un’ultima parola «tecnica» sui candidati è indubbiamente una novità nella politica italiana. Ma d’altra parte è una novità lui stesso, lo sceriffo Bondi dalla mascella quadrata, per i nostri politici. Quando mai si è visto, prima d’oggi, uno che entra a palazzo Chigi con carta bianca per tagliare le spese superflue dello Stato, e che rifiuta perfino il compenso (accettando alla fine solo un rimborso spese)? E quando è capitato che un commissario straordinario, dopo un sopralluogo, urli che il Policlinico Umberto I di Roma, con i vecchietti lasciati per ore sulle barelle, è una realtà disumana e intollerabile? «Sono furioso, ma siamo matti? È una situazione che bisogna tagliare alla radice».
Ecco, appunto: tagliare. Così si esprimeva un mese fa Bondi al Senato, nel corso di un’audizione, fedele alla sua immagine. Quella volta, l’uomo più fidato di Monti ammise anche il suo sconforto perché il lavoro dietro le quinte del governo gli ha fatto scoprire inefficenze e grovigli inimmaginabili. «Nel Lazio ho del contenzioso tra l’Università e l’Umberto I. Ma è giusto che lo Stato faccia causa allo Stato? Abbiamo già tanti avversari all’esterno. Abbiamo tanti che ci attaccano. Se lo facciamo anche noi stessi, facciamo harakiri».
Bizantinismi. Ma ancora nulla al confronto di quello che lo attende, ora che dovrà fare l’esame del sangue ai candidati dell’Udc, del partito di Montezemolo, forse anche di una terza lista che fa riferimento a Fini e con il problema pure dei fuoriusciti del Pdl.
Monti si fida ciecamente di lui e lo dice. Qualche tempo fa ne ha fatto un secco elogio pubblico: «Siamo stati un po’ ridicolizzati quando abbiamo chiesto a Bondi di essere commissario del governo per la spending review: ah, ah i tecnici chiamano i tecnici. Ma in Italia non c’era nessuno come Bondi».
Ora gli affidano le chiavi delle liste elettorali. E sembra che nessuno abbia avuto da obiettare. L’uomo dalle imprese impossibili, lo chiamano. Settantanove anni, alto, magrissimo, Bondi ha sempre mantenuto un basso profilo e riservato poche esternazioni alla stampa.
Quando parla di sé, si presenta come «un chimico, non un esperto di scienze economiche». Alla Montedison ha giocato, prima della Parmalat, la sua sfida più importante, chiamato da Enrico Cuccia a salvare la società sull’orlo della bancarotta subito dopo il crack Ferruzzi. Silenziosamente risanò una voragine. Era il 2003. Subito dopo lo chiamarono a Parma. Trovò un buco da 14 miliardi di euro; otto anni dopo ne lasciava 1,4 miliardi in cassaforte. Di quell’impresa resta famosa la determinazione nel lasciare a piedi i manager, abituati a una vita crassa. E intanto lui alloggiava in un alberghetto di periferia, rinunciava all’auto di rappresentanza e consumava cene frugali. Avvertite i candidati che forse è finita l’era della politica-bancomat. Forse.