Emilia Costantini, Corriere della Sera 28/12/2012, 28 dicembre 2012
«LA MIA OPERA DEI PUPI: UN TEATRO ANCORA VIVO E NON SOLO NOSTALGICO» —
Mimmo Cuticchio e l’Opera dei pupi: nel 2013, 50 anni di carriera. «E non ci hanno ancora rottamato — esordisce divertito il 65enne oprante, puparo e cuntista —. Siamo l’ultima riserva indiana». Una tradizione antica, com’era antica la Sicilia che il palermitano Mimmo ricorda da ragazzino: «Ho iniziato con mio padre — racconta — eravamo artisti viaggianti, e lo siamo tuttora. Rammento i paesini di una Sicilia atavica e un po’ ferma. Erano gli anni ’50. I giovani abbandonavano la campagna, emigravano e in paese restavano vecchi e bambini. Nelle strade sterrate, circolavano solo i muli, i carretti, di macchine poche. Molti paesani dormivano ancora nei soppalchi con sotto le bestie, eppure ai nostri spettacoli venivano tutte le sere, seguivano le storie, si incontravano, discutevano. E siccome all’epoca c’era poca moneta, pagavano il biglietto barattando formaggio, olio, vino... Il calzolaio faceva l’abbonamento a dieci spettacoli, risuolandoci le scarpe. Mio padre si faceva barba e capelli gratis dal barbiere, che poi la sera sedeva in platea con tutta la famiglia».
Dal 4 gennaio, all’Auditorium Parco della Musica, si celebra il mezzo secolo di attività con una serie di serate speciali in cui verranno rappresentati alcuni successi dell’Opera dei Pupi, riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità: «Guerrin Meschino», «La passione di Cristo», «Astolfo nell’isola di Alcina» e il concerto «Quaderno di danze e battaglie».
«Eravamo 7 figli — riprende Cuticchio — nati e cresciuti dietro le quinte. Era una Sicilia semplice, ci si accontentava di poco: ricordo che d’estate portavo con me, a fare il bagno nel fiume, i ragazzini del paese che il mare neanche l’avevano mai visto. C’era la povertà, ma la vita delle persone aveva un senso, esisteva la solidarietà. Oggi possediamo più cose, viviamo più comodi, abbiamo telefonini e computer, ma siamo più tristi». Nostalgia per un mondo che non esiste più. «Da quando mio padre nel ’69 si ritirò dalle scene, abbiamo preso in mano noi figli la ditta. Lungo il cammino alcuni hanno lasciato e, da sette che eravamo, siamo rimasti in due. Ma la tradizione continua con figli e nipoti ai quali poi passeremo il testimone. Per ora, siamo ancora tutti in viaggio sulla nave: a noi vecchi la responsabilità generale, i giovani si sono messi al timone. Mio figlio ormai è in grado di mettere su uno spettacolo da solo».
Un linguaggio universale, capace di comunicare con le culture più diverse: «Abbiamo portato i pupi ovunque: dall’America alla Turchia, dalla Francia al Giappone, dall’Africa, alla Russia... La nostra non è una tradizione locale ma mondiale, perché comunica forti emozioni». Una tradizione che non resta immobile nel tempo, ma si rinnova trattando temi attualissimi. «Il nostro non è un teatro-museo, ma vivo. Ho scritto un copione su Carlo Gesualdo, madrigalista del ’500, che uccise sua moglie: attraverso questa vicenda, ho affrontato il tema del femminicidio. Riscrivendo la favola di Aladino, invece, ho trattato il problema dell’identità, raccontando le storie dei figli degli extracomunitari: bambini che sono nati in Sicilia e che hanno diritto di crescere nel nostro Paese». Persino la mafia viene rappresentata dai pupi: «Il mio cunto sulla morte del generale Dalla Chiesa è stato ripreso anche nel film "Cento giorni a Palermo". Ho anche dedicato un testo all’infanzia di Paolo Borsellino». E la politica di oggi? Risponde secco: «Quella no, la lascio al cabaret. I miei pupi sono troppo seri per interpretare certi personaggi e avere certe facce».
Emilia Costantini