Giovanni Russo, Corriere della Sera 28/12/2012, 28 dicembre 2012
L’AMARO FLAIANO DELLA «DOLCE VITA»
Credevo di conoscerlo bene, Ennio Flaiano. Con lui ho lavorato al «Mondo», ne sono divenuto amico e l’ho frequentato fino agli ultimi giorni della sua vita. A lui ho dedicato libri, articoli, convegni. Gino Ruozzi, con Ennio Flaiano. Una verità personale (Carocci, pp. 304, 25), mi ha fatto tuttavia scoprire tante cose che ignoravo. L’autore ha infatti attinto a molto materiale praticamente sconosciuto, come l’epistolario e il taccuino Aethiopia. Appunti per una canzonetta, in cui il 25enne Flaiano annota date e impressioni della sua permanenza in Etiopia durante la guerra coloniale. Qui si possono ritrovare le origini di certi suoi testi, come Tempo di uccidere, il romanzo che vinse la prima edizione del premio Strega nel 1947. Oltre a compulsare tutte le opere di Flaiano, ha letto e studiato le centinaia di saggi e scritti a lui dedicati.
Il libro è di piacevolissima lettura: docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna, Ruozzi ha fatto uno studio approfondito dell’uso degli aforismi negli scrittori italiani. La figura di Flaiano viene così vista proprio attraverso quest’ottica, che esalta l’originalità della sua personalità di letterato, critico cinematografico, commediografo, soggettista, sceneggiatore e poeta.
Al contrario di molti biografi che sembrano scrivere una sorta di lungo necrologio, Ruozzi fa emergere un Flaiano vivo, che si muove nell’atmosfera frizzante del dopoguerra a Roma, che si attarda nei caffè di piazza del Popolo e via Veneto, luoghi del dialogo tra scrittori, artisti e giornalisti che facevano parte di quella «società della conversazione» ormai estinta. Sembra quasi di sentirle le battute fulminanti che si scambiano Mario Soldati, Alfredo Mezio, Vitaliano Brancati, cui si oppone un Flaiano a tratti brillante, altre volte niente affatto «spiritoso», anzi con una visione amara e pessimista degli italiani. L’amico più caro, il pittore e scrittore Mino Maccari, condivide con lui la passione per i giochi di parole. Quando Flaiano fa leggere la commedia tratta dal suo splendido racconto Un marziano a Roma al critico Nicola Chiaromonte, questi non esita a scrivergli una lettera indicandogli le ragioni delle sue perplessità e suggerendogli tagli e modifiche. Flaiano mantiene il testo come l’aveva concepito, e gli risponde: «Non mi resta che sperare nell’insuccesso», che puntualmente si verificò.
Le altre sue commedie furono invece accolte con favore dal pubblico e dalla critica. Ma il clamoroso successo l’ottenne nel cinema con La dolce vita, che si rifà proprio all’ambiente che gravitava intorno a via Veneto. Al «Mondo» era stato critico cinematografico, attività a cui rinunciò quando divenne acclamato autore di soggetti e sceneggiature. Non riuscì tuttavia a realizzare il sogno di diventare regista: lo desiderava soprattutto per il progetto di trarre una pellicola dal suo racconto Melampo, che ispirerà il film La cagna di Marco Ferreri.
Uscito in occasione dell’anniversario della morte di Flaiano, avvenuta il 20 novembre 1972, il saggio di Ruozzi fa giustizia delle approssimative ricostruzioni di chi gli attribuisce le proprie improbabili spiritosaggini. Dal libro emerge la sua diffidenza nei confronti dei giornalisti: «Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?»; la predilezione per i moralisti francesi, da La Rochefoucauld a Chamfort e Renard; e la vena meno conosciuta di questo re del paradosso e dell’aforisma: quella poetica. Se la poesia di Flaiano è nel solco della tradizione latina, da Catullo a Marziale, Giovenale e Orazio, il tono prevalente è quello dell’epigramma: «Chi apre il periodo lo chiuda», «chi tocca l’apostrofo muore», «non calpestare le metafore», «il gatto di Moravia sta facendo le fusa, arriva e se lo mangia il gattopardo di Lampedusa». Infine quello dedicato alla morte: «Qui giace Ennio Flaiano tra il materiale raccolto per il suo romanzo inedito. Le memorie di un giorno non durano di più».
Il 3 settembre 1972, poco prima di morire, Flaiano scrive sul «Corriere della Sera»: «Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità».
Giovanni Russo