Felice Cavallaro, Corriere della Sera 28/12/2012, 28 dicembre 2012
QUEGLI ANNI TRA INCHIESTE, OMICIDI E «TALPE» —
L’ultimo libro lo ha dedicato al nipotino, Riccardo. Offrendo l’esempio di amici perduti come Falcone e Borsellino. O, dicono i suoi estimatori, un metodo. Quello dell’aderenza ai dati concreti, specchio di una «idiosincrasia per gli scenari studiati e tratteggiati prima ancora di avere trovato prove certe», come ripete Pietro Grasso giusto per prendere le distanze da qualche suo collega e soprattutto da alcuni cronisti spesso irriguardosi.
Ha affrontato assemblee tempestose anche contro pm tosti come Antonio Ingroia o Massimo Russo che lo liquidò come «un generale senza esercito». Ha sfidato pure i titoloni di giornali schierati rilanciando ogni volta, come gli è capitato con il Fatto quotidiano, convinto che «la sanzione penale ha rischiato di essere considerata uno strumento di trasformazione della politica». Ma sempre senza cedere d’un passo ai principi fortificati in 43 anni di impegno e di lotta alla mafia: «La vera rivoluzione è ripristinare la legalità, riaffermare che in uno Stato di diritto tutti sono soggetti alla legge».
Lo stesso dogma praticato dal 5 novembre 1969, primo incarico alla pretura di Barrafranca, cuore della Sicilia, in provincia di Enna, mura scrostate, un impiegato tuttofare: «Mi sembrò di recitare la parte del giudice di Pietro Germi nel celebre "In nome della legge"».
Eccolo undici anni dopo, ancora giovanissimo, in via Libertà a Palermo, un impermeabile bianco, davanti al cadavere di Piersanti Mattarella, nell’Epifania del 1980, orrore preceduto dalle esecuzioni del giornalista Mario Francese, del segretario della Dc Michele Reina, del giudice Terranova caduto con il maresciallo Mancuso. Una sequela sanguinaria che accompagnerà con nuovi lutti per tutta la vita Pietro Grasso, scansando attentati. Come accadde quando nel 1992 per un pelo non salì sull’aereo di Stato con Falcone e Francesca Morvillo raggiungendoli a Palermo poche ore dopo la strage di Capaci.
Un dolore infinito che troncava un’amicizia ferrea, temprata sette anni prima dal maxi processo. Con l’istruttoria scritta da Falcone e Borsellino e la sentenza da 7 mila pagine vergata da Grasso, giudice a latere di Alfonso Giordano, 400 imputati e 40 giorni di camera di consiglio, 19 ergastoli e 2.665 anni di reclusione, la barba incolta come Falcone, rimasto in sala regia, nel bunker del pool frattanto assediato da invidie e rancori interni al palazzo dei veleni.
Gli stessi che Grasso poi sperimentò su se stesso, da procuratore della Repubblica. Anche quando, bonario e paterno, 10 anni fa, l’allora procuratore generale Salvatore Celesti l’avvertì per telefono, mentre in un carcere del Nord stava interrogando Nino Giuffrè, «il nuovo Buscetta» che avrebbe portato alla traccia per la cattura di Bernardo Provenzano: «Pietro, sento murmurii...».
I mormorii erano riferiti a due lettere «riservate» firmate da due aggiunti che si ritenevano esclusi da quelle rivelazioni, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. Tema di scontro, la cosiddetta «circolazione delle notizie». Una guerra poi alimentata da Ingroia quando Grasso divenne procuratore nazionale antimafia: «Ruolo interpretato in senso sempre più centralizzatore».
Ma proprio perché non circolavano alcune notizie fu possibile mettere le mani su marescialli e impiegati infedeli che lavoravano come ombre accanto a Ingroia e altri ignari pm, le famose talpe, i «traditori» che informavano il re (mafioso) della sanità Michele Aiello.
Qualcuno avrebbe dovuto chiedere scusa, ma le animosità investirono anche l’attuale procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, carriera ostacolata da colleghi che preferivano richiamarsi al predecessore di Grasso, a Giancarlo Caselli. Assalti continui fino alla reazione dello stesso Grasso. Un boato su La Stampa: «Mi infangano».
Amarezze sempre condivise con Maria Fedele, la moglie, affabile e tenace, colonna portante nella storia di Grasso, eroina anche lei di una lotta vissuta direttamente. Pur avendo rischiato in prima persona. Come accadde quando il marito contava i cadaveri di Palermo e lei insegnava a Partinico, mezz’ora di strada con l’utilitaria che parcheggiava davanti alla scuola e che un giorno trovò letteralmente segata in due pezzi. «Ma che lama hanno usato?». Si capì che era l’intera famiglia in pericolo. Come confermò un fallito attentato nella villa di Monreale. Anche per questo la professoressa Fedele ha seguito il marito a Roma, trovando braccia aperte al ministero dell’Istruzione dove lavora con Profumo, come faceva con Gelmini e con Fioroni, anche per coordinare le iniziative sulla legalità.
Materia che le consentì di prendersi una bella soddisfazione quando, da presidente del nuovo Centro Borsellino, proprio Massimo Russo salì le scale del ministero bussando per patrocinio e contributi. E lei: «Soldi ne abbiamo pochi, ma l’appoggio è pieno». Con Russo infine soddisfatto e amichevole: «Sei una potenza». Eh, no, col sorriso sulle labbra lo gelò: «Errore. Sono anch’io un generale senza esercito».
Felice Cavallaro