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 2012  dicembre 28 Venerdì calendario

Una mattina di fine estate prendo un aereo per St. Tropez e vado a intervistare la donna più bella del mondo; una che, tra l’altro, non da mai interviste, men che meno sulla sua vita privata

Una mattina di fine estate prendo un aereo per St. Tropez e vado a intervistare la donna più bella del mondo; una che, tra l’altro, non da mai interviste, men che meno sulla sua vita privata. Sono passati quasi 25 anni da quando Kate Moss, quattordicenne, ebbe il suo primo lavoro da modella, e per l’occasione ha accettato di parlare con Vanity Fair. Se sono qui, è perché la conosco. Mia moglie - la stilista Bella Freud - è per lei un’amica, ed è un amico Keith Richards, che ho aiutato a scrivere la sua autobiografia. Ma so che ci sono confini da rispettare. La sua diffidenza non è una sorpresa: il silenzio è una scelta sana se la stampa scandalistica ti tratta da bersaglio mobile. Inoltre, mi ha spiegato lei, essere un personaggio non le interessa: «Vivo la mia vita, faccio il mio lavoro. C’è una differenza tra le due cose». Non le va di «blaterare» sui fatti suoi come fanno tanti attori per promuovere i film: «Non c’è granché da dire». Fra le supermodelle della sua generazione, Kate è quella che ha lasciato più tracce dal punto di vista culturale. Dopo 25 anni è ancora un’icona di stile, e l’unica che abbia continuato a lavorare ininterrottamente. L’anno scorso ha guadagnato 7 milioni di euro - solo Gisele Bündchen ha fatto di più - e, a 38 anni, il suo cachet supera ancora i 300 mila euro al giorno. Tutto questo, senza smettere di divertirsi. E la sua reticenza ha generato intorno un enigma che ha fatto solo bene alla carriera. Per una strana coincidenza, la stanza in cui mi sveglio ogni mattina da 16 anni è la stessa in cui Kate viveva all’inizio degli anni ’90, con un materasso sul pavimento e poco più, assieme al fidanzato di allora, il fotografo italo-newyorkese Mario Sorrenti. La stessa che ha fatto da sfondo a un servizio di Corinne Day - con la diciannovenne acerba modella struccata e in lingerie - che, pubblicato dal Vogue inglese nel 1993, cambiò la storia della moda e fece gridare allo scandalo. Oggi fa parte della collezione permanente del Victoria and Albert Museum. Kate abita su una collina di pini affacciata sulla baia di Pampelonne e su quella di St. Tropez. Un alto cancello di legno si apre su ulivi, vigne e siepi. Un cane senza coda, mezzosangue Staffordshire, mi segue, e a bordo piscina - con la figlia di dieci anni, Lila, che le sta sdraiata addosso - la modella parla animatamente con Tricia Ronane, un’amica di Croydon, la periferia londinese dove è nata. Mi saluta caldamente, e mi racconta del party post-cerimonia di chiusura dell’Olimpiade a casa del vicino George Michael, dove tutti ballavano sulla sua musica, «e Everything She Wants mi ha mandato in paradiso!». Andiamo a pranzo al Club Cinquante-Cinq, che Brigitte Bardot frequentava quando era famosa come lei, e per la prima volta posso osservarla mentre affronta la curiosità della gente. Signori con iPhone le passano vicino, fingendo di non filmare, i clienti seduti la guardano rapiti. Lei sembra non farci caso, in realtà i suoi occhi a raggi X vedono tutto, compresa la T-shirt che indossa un ragazzo seduto di spalle. Gli fa cenno di voltarsi: il davanti della maglia ha una stampa di Kate nuda, coperta solo da un velo nuziale. E lei ride. All’uscita, mentre i paparazzi sbucano da dietro una siepe, con Tricia chiacchierano di Croydon, e di come a Croydon si parla di ragazzi e di come lì cow (letteralmente mucca, ma è usato per insultare una donna) si pronunci caa. Kate ride spesso, una risata silenziosa con la bocca atteggiata in un urlo. «Cielo, quanti appunti», dice, guardando il mio bloc-notes. Li ho raccolti parlando con i suoi amici, l’hair-stylist James Brown, gli stilisti Marc Jacobs e John Galliano, la musa Amanda Harlech, e lei fa: «Ma allora non c’è bisogno che io dica nulla». C’è in realtà una cosa di cui le piace parlare, ed è il tempo dei suoi inizi, a Croydon. «Gli abiti mi sono sempre piaciuti, vestivo da bambina il mio fratellino Nick, lo chiamavo Sylvia. Ho ancora una sua foto con il neo, le tette finte, sembrava Liz Taylor. Lui non se l’è mai presa, anzi me l’ha regalata con la dedica "A Kate, ti voglio bene, Sylvia". «Mia madre, che faceva la barista, quando ho iniziato a fare la modella mi diceva: "Non puoi essere normale?". E io: "Perché, a te sembra di essere normale?". La gente del quartiere è così, assurda, senza rendersene conto. "Non puoi uscire in questo modo, non fumare per strada, non metterti le scarpe con il cinturino, non ti fare la coda da una parte". E io invece facevo tutto, perché erano le cose che facevano le ragazze fighe: esattamente come Lila che oggi vuole lo chignon. Mio fratello, che abita ancora lì, non mette mai piede nei pub: troppe risse. Ma è proprio per le risse - in strada, nei parchi - che crescere a Croydon è stato divertente. Non è dalle risse che sono scappata, è proprio da tutta quella vita lì. Non ho mai pensato che fosse quello il mio destino». Da bambina viaggiava con suo padre, che lavorava per la Pan Am. A Miami, New York, San Francisco. «E quando tornavo a Croydon, alla nostra auto senza aria condizionata, alla casa senza piscina, mi dicevo: io qui non ci resto». Venne notata tra la folla dell’aeroporto JFK di New York da Sarah Doukas, fondatrice dell’agenzia Storm, si presentò ai primi provini con la divisa della scuola. La protezione della madre durò un giorno. «Poi mi ha detto: "Basta, se è questo che vuoi fare, lo fai da sola". E io: "D’accordo"». Era parecchio minorenne quando frequentava a Croydon il Rue St. George, un bar dove beveva snakebite - un miscuglio di sidro e birra - o black - «Lo stesso con l’aggiunta di liquore di ribes. Ora l’hanno messo al bando: ti fa andare fuori di testa». Lì, un venerdì sera, la vide James Brown, che aveva quattro anni più di lei, e la ricorda così: «Capelli lunghi e incredibili, rossetto rosso perfetto, risata inconfondibile, gli stivali di Katharine Hamnett che non avevo visto addosso a nessun’altra. Chi diavolo era quella ragazza?». Aveva appena compiuto 15 anni quando andò a un provino con John Galliano, a Londra, nel 1989: «Ho preso il treno, senza dire a nessuno dove andavo. Era una vita parallela, che mi piaceva. Una vita in cui mi sentivo a mio agio». Fu anche il suo primo incontro con un’altra delle «nuove ragazze», Lucie de la Falaise - nipote di Loulou, la musa di Yves Saint Laurent -, destinata a diventare una delle sue più grandi amiche. «Stavamo cercando ragazze nuove, selvagge», ricorda Galliano, «e quando la vidi pensai: wow, ho trovato il mio piccolo diamante grezzo. Era incredibile: ha infilato il vestito e lo ha capito subito, lo ha fatto suo. E poi la camminata, la postura, gli splendidi capelli lunghi: più che una bellezza, era un enigma. Già allora era guardinga. E credo che neanche oggi qualcuno sappia chi è davvero. Per indossare un abito ha bisogno di una storia, solo allora si libera della sua timidezza, ed esce là fuori, sa dove sono le macchine fotografiche, e conosce le angolature. È in grado di dire a un couturier che cosa funziona, e noi ascoltiamo. È l’unica musa che io abbia mai avuto. Capace di creare insieme a me». L’anno scorso, quando Galliano - dopo uno scoppio di follia in un caffè di Parigi - finì sotto processo, estromesso dal mondo della moda, e poi in clinica di disintossicazione, Kate non gli fece mancare il suo appoggio. Gli chiese di disegnare l’abito per le sue nozze con il rocker Jamie Hince. E il giorno del matrimonio, il 1° luglio, la modella di nuovo sentì il bisogno di una storia. «Da quando avevo 14 anni», mi racconta, «John mi ha suggerito come immaginarmi, tipo "Sei una ragazza cattiva che va in moto con i ragazzi". Quel giorno avevo il panico, gli ho detto: "Devi darmi un personaggio da interpretare". E lui: "Hai un segreto nascosto sotto il velo. Quando lui lo alzerà, vedrà il tuo passato dissoluto"». In effetti, la manager di Kate, Jen Ramey, aveva dubbi sulla cerimonia in chiesa: «Con le stronzate che abbiamo combinato, credevo che saremmo stati avvolti dalle fiamme dell’inferno». Kate aveva 15 anni quando partiva da Croydon alle 11 di sera, da sola, per andare a Londra - con Galliano - al Quiet Storm, un nightclub. «Portavo scarpe da prostituta, minigonne inguinali e poco altro. Non mi sono mai divertita tanto. C’erano tutti: Boy George, Kylie Minogue, Michael Hutchence». Spesso si fermava a dormire a casa di James Brown. «Andavamo alla cabina telefonica per avvisare sua madre, io ero paralizzato dalla paura», ricorda l’hair-stylist, «e lei, tranquilla: "Mamma, non ti preoccupare, sono da Jimmy B., va tutto bene». Kate: The Kate Moss Book, appena pubblicato da Rizzoli, contiene tra le altre foto il servizio che Corinne Day le scattò nel 1990, l’anno in cui smise di andare a scuola. Nuda o vestita semplicemente, struccata, con le lentiggini, Kate sulla spiaggia è una bellezza acerba che ancora oggi toglie il fiato. Le foto apparvero su The Face come manifesto anti-glamorous del nuovo stile grunge. Corinne era famosa per il suo dispotismo. «Mi faceva piangere», ricorda la modella. «Se guardo una sedicenne oggi, mi sembra impossibile che qualcuno le chieda di spogliarsi. Ma allora era diverso. Il messaggio era: se non fai quello che ti diciamo, non ti facciamo lavorare più. Ogni volta mi chiudevo in bagno a piangere, poi uscivo e obbedivo. Ma ero a disagio. Odiavo il mio seno, ero piatta, e su un lato avevo una voglia. Ricordo la foto in cui corro sulla spiaggia: c’era un solo uomo nella troupe, il parrucchiere, e pretesi che si girasse di spalle. Ma Corinne diceva: "Più ti faccio arrabbiare, meglio vengono le foto". La guardavo con odio, sapevo che in quelle foto ero davvero io, e io non voglio mai essere me stessa. Nelle foto scattate dagli amici faccio sempre le smorfie, chiudo gli occhi, sono terribili». In quelle foto c’è in effetti - come c’è nelle foto di oggi - la vulnerabilità di una ragazza costretta a fare da sola troppo presto. «Avevo 15-16 anni, uscivo all’alba, andavo in treno a Gatwick, salivo sull’aereo, alle 9 di mattina ero sul set a Parigi. E non c’era nessuno a starmi vicino. Ecco perché tante persone - come la mamma di Lucie - mi hanno preso sotto l’ala. Non avevo nessuno su cui contare. Nessuno si è mai davvero preso cura di me». Fu a New York che Kate diventò la protagonista di un rinascimento della moda. Liz Tilberis, che stava rilanciando Harper’s Bazaar, la mise su una delle prime copertine, e praticamente all’interno di ogni numero; il suo direttore creativo, Fabien Baron, chiamò i fotografi della nuova scuola di The Face, che volevano lavorare solo con Kate - Craig McDean, David Sims, Mario Sorrenti (che nel frattempo si era fidanzato con la modella). Baron era anche direttore creativo delle campagne di Calvin Klein, dove Kate, dopo un solo provino, si guadagnò un contratto di otto anni, il suo primo grande contratto, la svolta nella sua vita. «Era più bassa delle altre ragazze, 1 metro e 70, aveva le gambe corte e un po’ storte, i denti non erano diritti e perfetti», ricorda Baron, «ma il suo fascino era incredibile». Era un fascino acerbo a cui il pubblico americano non era abituato, e la prima campagna scattata da Herb Ritts - lei e Mark Wahlberg, entrambi seminudi - generò una tempesta di proteste. «Lì ho avuto una crisi di nervi», ricorda Kate. «Avevo 17 anni o 18, e non mi sentivo a mio agio, a cavalcioni su quel ragazzo mezzo nudo. Sono rimasta a letto per due settimane, pensavo di morire. Sono andata dal dottore, lui mi ha detto: "Ti prescrivo un po’ di Valium". Grazie al cielo Francesca Sorrenti (madre di Mario, ndr) non ne ha voluto sapere: "Tu quella roba non la prendi". Era solo ansia, ma nessuno si preoccupa di come stai psicologicamente. C’è un’enorme pressione che ti spinge a fare quello che devi fare». Tornata a Londra, posò di nuovo per Corinne Day, un altro servizio di lingerie. «Volevamo fare qualcosa di nuovo», ricorda la stylist, Cathy Kasterine, «mostrare che cosa portiamo quando siamo in casa, e magari infiliamo una vecchia T-shirt dentro una calzamaglia. Non immaginavamo che Kate - così magra, così poco formosa - sarebbe diventata il bersaglio della reazione pubblica contro il grunge». «Semplici slip, niente push-up, insomma quello che noi ragazze indossavamo sul serio», ricorda Kate. «L’avesse portata una con le tette più grosse, una modella da lingerie, nessuno ci avrebbe trovato niente da ridire. Siccome ero io, e siccome la situazione era quella di una ragazza nella sua cameretta, gridarono alla pedofilia. Ma avevo 19 anni». «A quelle foto vennero associati tutti i mali: anoressia, pornografia, pedofilia, droga», dice Alexandra Shulman, storico direttore dell’edizione britannica di Vogue, che le pubblicò. Kate diventò il simbolo del vituperato «heroin chic», e dell’anoressia. «Non avevo mai toccato l’eroina», protesta. «Ed ero magra semplicemente perché lavoravo troppo. Ricordo che spesso dormivo a Milano in un bed and breakfast dove al ritorno dal lavoro non c’era niente da mangiare. Ero agli inizi, nessuno mi portava fuori a pranzo: solo Carla Bruni una volta fu davvero carina. Ma anoressica, mai». Dopo la separazione da Sorrenti, a fine 1992, a occuparsi di lei furono Naomi Campbell e Christy Turlington. «Mi presero sotto l’ala: "Adesso sei con noi". E che spasso, dormire al Ritz nella camera di mezzo, tra Christy e quella di Naomi». «In quel periodo si sentiva sola», racconta Turlington. «Lavorava troppo ed era sballottata per il mondo, come capita alle ragazze che sono agli inizi e non sanno dire no. Girava in scarpe da tennis e jeans, con la sua valigetta per tutte le evenienze, tipo: dove dormo stasera? Poco dopo, incontrò Johnny». Erano gli anni Novanta a New York, e Kate Moss e Johnny Depp vivevano a Waverly Place nel palazzo dove abitava anche Carolyn Bessette, allora fidanzata di John Kennedy Jr. Kate aveva chiamato attorno a sé, nel quartiere, tutti i suoi amici: James Brown, Jen Ramey, Lucie de la Falaise e suo marito Marlon Richards, figlio di Keith dei Rolling Stones (che da allora, per lei, è «lo zio Keith»); Jess Hallett, direttrice casting, abitava a Londra ma veniva spesso in visita. Poi però la storia con Depp finì, e gli amici dicono che lei ne soffrì molto e a lungo. «Nessuno si è mai davvero preso cura di me», ribadisce Kate, «ma Johnny per un po’ ci è riuscito. Io gli credevo. Se gli chiedevo: "Che cosa faccio?", lui me lo diceva. E questo mi è molto mancato quando è finita. Mi mancava il confronto con qualcuno di cui mi fidassi. Un incubo, anni e anni di lacrime. Oh, quante lacrime». Il genio di Kate nel vestirsi in modo casuale, brillante e mai ripetitivo le ha dato un enorme potere nel nome della moda. «Intere linee sono state disegnate copiando il look con cui è uscita una mattina», dice Bella Freud. Lei lo sa, ed è per questo che ormai esce sempre in jeans neri o grigi: «Se cambiassi look ogni giorno, avrei sempre i paparazzi addosso. Se sono sempre uguale, si stufano». Le forbici sono da sempre la sua arma: «Voglio sempre tutto più corto, più corto, più corto. L’altro giorno Lila mi ha fermata, "Mamma, smetti di tagliare quel vestito, ti sta bene così". Una volta ho costretto Fifi (la sua assistente personale, ndr) a tagliare un cappotto costosissimo perché mi arrivava al polpaccio, e con le mie gambe storte quella lunghezza mi sta malissimo». Uno dei look più memorabili che abbia mai dovuto mettere insieme fu in occasione di una visita al famigerato KitKatClub di Berlino. «Mi ero portata dietro cose tutte nere e di pelle, per un servizio stile Cabaret. Nessuno voleva venire con me in quel locale, ma io dissi: "Non me ne vado da Berlino senza esserci stata". Alla fine si offrì il mio autista. Solo che all’ingresso ci fermò il buttafuori: "Non potete entrare così, è la serata sadomaso". Mi sono tolta il sopra, ho tolto la cintura dalla gonna di pelle e me la sono allacciata sulle tette, e l’autista si è tolto i pantaloni. Dentro era davvero strano: uomini vestiti di plastica trasparente, cose così. Vado da un tipo e gli faccio: "Mi piace la tua T-shirt". Ma vedo che ha l’espressione strana, abbasso lo sguardo: si sta masturbando». «Il segreto della longevità di Kate», dice Anna Wintour, direttore di Vogue America, «sta nel suo essere misteriosa. C’è in lei qualcosa di nascosto, ed ecco perché fotografi e giornalisti e artisti ne sono attratti. Perché faticano a dire esattamente chi o che cosa lei sia, e così le possono attaccare addosso le loro fantasie». Un ingrediente di questo suo segreto di longevità è il silenzio. «Ha avuto la rara intelligenza di non cedere alla tentazione di giustificare gli aspetti della sua vita che non hanno a che fare con il lavoro», dice il designer Christian Louboutin. «Le cose davvero dolorose non sono mai state spiegate, e parte di questo mistero le si legge in faccia». Non mi era mai successo di scrivere un articolo su una persona e di avere raccolto opinioni unanimemente positive come in questo caso. «Per quanto famosa, Kate è gentile con chiunque», dice Bobby Gillespie, leader dei Primal Scream, la band che ha chiesto a Moss - buona musicista e cantante - di prestare la sua voce ai propri brani. Il «trattamento Moss» tocca anche a me. La guardo affascinato, il secondo giorno del mio soggiorno in Francia - mentre tutti gli ospiti sono distrutti dai bagordi della sera prima -, cinguettare felice alle prese con un gioco da tavola con Lila, a bordo della barca che ci sta portando a fare un giro. E poi, di fronte a Cap Nègre, madre e figlia ballano e cantano sul ponte un vecchio pezzo disco, alzando in aria le mani. I suoi amici sanno che cosa significhi essere «Mossati». Rientri a casa alle nove di mattina, e ti spiace di rientrare. «Ero convalescente, Kate mi ha persuaso ad andare da lei al Ritz di Parigi», ricorda Jess Hallett. «Sono tornata, due giorni più tardi, con un occhio nero, un dito rotto, e neppure la più pallida idea di che cosa fosse successo». «È stata Mossata», ride Kate quando glielo riferisco. Sempre Hallett mi racconta di una sera in Sudafrica quando la modella riuscì nell’impresa impossibile di convincere Peter Gabriel a cantare e suonare nella sua suite, al termine di un concerto di beneficenza per Nelson Mandela. «Sì, ricordo!», dice Kate. «C’era un piano nella stanza, l’ho perseguitato - "Per favore, per favore" - finché ha cantato Dont’ Give Up. Mi sono sentita morire, e alla fine abbiamo bevuto un mucchio di champagne». «A un certo punto ho chiamato la reception», conclude Hallett, «per chiedere la sveglia alle sette. Il tizio mi fa: "Signora, le sette sono fra cinque minuti"». Molti sanno che nel 2002, quando era incinta di Lila, Kate - dopo aver detto in un’intervista quanto le sarebbe piaciuto conoscere Lucian Freud - il grande pittore, attraverso sua figlia Bella, la invitò a posare per lui. Meno famoso di quel ritratto è il tatuaggio che l’artista le ha fatto sulla natica destra, e che lei mi mostra un giorno al ristorante. «Mi ha raccontato di quando, da giovane, era in marina e tatuava gli altri marinai», ricorda Kate, «e si è offerto di tatuare anche me. "Mi piacciono gli uccelli", gli ho detto. E lui: "Ce l’ho il disegno di un uccello", e mi mostra da un libro un suo quadro con un pollo con la testa penzoloni. E io: "No, quello no". E lui: "Forse dovrei disegnare te". Ma ho pensato, una ragazza proprio lì? No, grazie. Alla fine ci siamo messi d’accordo su uno stormo di uccelli. Un Freud originale: quanto lo pagherebbe un collezionista? Qualche milione?». C’è una tenera foto di Freud a letto con lei, il braccio sulle sue spalle: è stata scattata nel 2010, mentre l’artista stava morendo. «Sono andata a trovarlo con mio marito», racconta Kate, «gli ho portato dei fiori, lui ha abbassato le coperte e mi ha detto: "L’ho tenuto caldo per te". È stato Jamie a suggerire di fare una foto, e io mi sono infilata sotto il suo braccio. Lucian era sempre gentile. Lo adoravo». Quando viene colpita da uno scandalo pubblico, ne esce ogni volta con più forza, più fama, più lavoro, più soldi. Come se il rischio fosse parte di ciò che la gente si aspetta da lei. Nel 2005, qualcuno vendette ai tabloid un video che la mostrava mentre faceva uso di droga. Non che fosse una sorpresa, ma lei ebbe il coraggio di dire: «Non mi drogo più di tanti altri». Uno dopo l’altro, i marchi cancellarono i suoi contratti. Sembrava che la sua carriera potesse finire. Ma il mondo della moda non la abbandonò. La rivista W continuò a metterla in copertina, Anna Wintour le fu particolarmente vicina, e alla fine tornarono anche le aziende. «La ripresi subito da Calvin Klein», dice Fabien Baron. «E lei fece quello che doveva fare: disintossicarsi, ripulirsi». Su tutta quella storia, ottengo da lei solo una risposta: «Ci sono persone che, qualunque cosa scriva la stampa, non tradiscono mai. Una è Anna Wintour. Combatte per te, anche se non è tenuta a farlo. Lei si è presa cura di me. Se la chiamavo in lacrime, era sempre pronta ad ascoltarmi». Nel 2007 ha incontrato Jamie Hince e ha scoperto in lui - oltre al talento di chitarrista dei Kills - un cervello e un senso dell’umorismo che ne facevano il candidato perfetto a diventare il Signor Moss. «Ero a casa di Lucie, in Francia, e stavamo guardando foto di uomini su Google», racconta Kate. «A un certo punto è venuto fuori lui e ho detto: "Uh, questo mi piace". Un amico comune lo ha avvisato, lui è venuto da me, e abbiamo passato insieme i quattro giorni successivi. Alla fine ci siamo svegliati e gli ho fatto: "Lo vuoi un sandwich al bacon"? Jamie si è messo a ridere perché era vegano e non lo sapevo. Ma non è rimasto vegano a lungo». Gli chiedo se è stato un colpo di fulmine, annuisce: «Gli piace fare le cose che piacciono a me, ha il mio stesso sense of humour, è divertente e al tempo stesso musone». Siamo a Highgate, nella casa georgiana di mattoncini dove abita la famigliola. Mi mostra la stanza dove Samuel Taylor Coleridge passò gli ultimi anni della sua vita. Questa palazzina, mi spiega, apparteneva a un dottore che lo stava curando dalla sua dipendenza dal laudano: «Sono venuta ad abitare in un centro di disintossicazione», ride. Le chiedo se è stanca, dopo questi 25 anni. «A me non sembra che sia passato tutto questo tempo. E non mi sento vecchia. Certo, non vado più tanto in giro per locali. Faccio una vita tranquilla, con mio marito, mia figlia, il cane. Non sono più una casinista. Anzi, no: non voglio far scoppiare la bolla, rovinare l’illusione. Perché, quando nessuno mi vede, sono ancora casinista, eccome».