Fiammetta Fadda; Annalia Venezia, Panorama 27/12/2012, 27 dicembre 2012
CHEFSTAR
Meno tre, meno due, meno uno… Mentre il 2012 finisce, trasferendo al 2013 il suo pacchetto di crisi economia e politica ancora senza soluzione, loro possono alzare il bicchiere, osservare il delicato perlage dello champagne, brindare allo strepitoso anno appena trascorso e divertirsi a immaginare i futuri successi attraverso i fuochi d’artificio. Per poi tornare di corsa al lavoro: precipitandosi ai fornelli, sul palco o davanti alle telecamere.
«Loro» sono gli starchef televisivi: fatturano come una piccola azienda, sono invidiati e contesi, vezzeggiati e adulati. Tutti li vogliono, tutti li cercano. Sono l’ospite d’onore nel party del noto produttore di vino, l’attrazione della serata nel resort a cinque stelle, il regalo più ambito al compleanno della soubrette: ormai nessun evento esprime un vero appeal se sull’invito non brilla il nome di un maestro nella candida divisa d’ordinanza.
È proprio così. Sulla ruota del tempo corre l’ora degli chef divizzati che riempiono di sé ogni porzione della notorietà. Sono nei programmi televisivi di successo, sulle copertine dei loro best-seller. Perfino negli spot pubblicitari, perché sono tante le aziende ad avere scoperto, grazie a loro, di potere vendere meglio le cucine e il vino o le bibite, com’è più ovvio, ma anche le barche e perfino le automobili. È anche a causa di questa improvvisa attenzione se tanto fermento mediatico ha accolto la seconda edizione di Masterchef Italia, partita giovedì 13 dicembre su Sky tv con l’implacabile terzetto Carlo Cracco (il tenebroso), Joe Bastianich (il perfido), Bruno Barbieri (il severo ma umano): tre «restaurant man», secondo il titolo onorifico inventato dall’autobiografia best-seller di Bastianich, che sono la personificazione della grande ascesa dei cuochi, un tempo artigiani dei fornelli e oggi clamorosi interpreti dello stile di vita contemporaneo. Al casting per partecipare alla nuova serie, con 20 concorrenti, si sono presentati in 8 mila. Del resto l’ultima puntata della prima versione, sul canale Cielo, aveva registrato 700 mila spettatori e acceso un intenso dialogo telematico su Twitter e su Facebook. Tanto che Sky ora non esclude un Masterchef dedicato agli adolescenti, sulla falsariga del format australiano.
Ma il cooking televisivo è soltanto uno dei pianeti che girano attorno agli chef trasformati in stella, un sistema fatto di ristoranti d’alto profilo, società di catering, ricettari best-seller, di sponsorizzazioni e pubblicità. Non c’è cuoco che non scriva libri, non c’è libro di cuoco che non entri in classifica.
Qualche esempio? Se vuoi fare il figo usa lo scalogno, che Carlo Cracco ha portato in libreria con la Rizzoli a metà settembre, è già alla nona edizione con 70 mila copie vendute. Davide Oldani, con Il giusto e il gusto, uscito sempre a settembre, ne ha vendute oltre 10 mila. Hanno scritto libri di successo anche Simone Rugiati, Antonella Clerici e la marocchina Samya Abbary, protagonista della striscia quotidiana di ricette piccanti di Mattino Cinque. Che, a differenza di tanti colleghi, non si prende così sul serio e applica la seduzione alle ricette: «Ho imparato a cucinare per mio padre. Col tempo ho capito anch’io che gli uomini si conquistano con lo sguardo ma si tengono per la gola» spiega.
Per non parlare delle scuole, ultima appendice del successo: praticamente non c’è cuoco di rilievo che non ne abbia una o che non sia chiamato a insegnare nei due atenei internazionali di Alma, nella reggia di Colorno (Parma) e a Pollenzo (Cuneo). Gualtiero Marchesi, rettore di Alma, ha da poco inaugurato l’anno accademico. A Pollenzo la novità del 2013 saranno le Tavole accademiche e la nuova Scuola di alta cucina domestica italiana, entrambe lanciate dalla Slow food di Carlo Petrini, dove si alterneranno come docenti 25 master chef provenienti da una decina di paesi, per un totale di 22 stelle Michelin. Fra gli stranieri Ferran Adrià, il catalano inventore della cucina molecolare, mentre gli italiani avranno la statura del mantovano Antonio Santini, del Pescatore a Canneto sull’Oglio, e del sorrentino Alfonso Iaccarino, del Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi.
Certo, guadagnano molto, i cuochi trasformati in star. Qualcuno un po’ si scandalizza alle cifre che si ipotizzano. Va detto che una sola cosa è certa: fanno una vita infernale. Prendete Cracco, per esempio: oltre al libro, quest’anno ha registrato le tantissime puntate della prima edizione italiana di Masterchef, in studio e in varie location in tutta Italia. Non soddisfatto, è diventato papà, ha assunto la consulenza del ristorante Trussardi alla Scala di Milano e da gennaio disegnerà il menu per i passeggeri della business e della first class della Singapore Airlines; inoltre s’è prestato a innumerevoli eventi spot, fino alla copertinashock con modella nuda che annunciava la sua nuova rubrica sul mensile Gq. A tutto questo si aggiunge, ovviamente, la gestione quotidiana del suo ristorante, che occupa 30 persone e serve oltre 20 mila coperti all’anno.
Ormai seguire le ramificazioni finanziarie delle attività dei cuochi più famosi è come cercare d’identificare gli ingredienti di un piatto di alta cucina. Società con partecipazioni incrociate, decine se non centinaia di dipendenti, consulenze planetarie, iniziative a getto continuo: è il caso di Bastianich, che non è propriamente un cuoco, ma un ex consulente della Merrill Lynch, e che oltre a una ventina di locali negli Stati Uniti e alle tre aziende vinicole italiane ha da poco allargato i suoi orizzonti con la partecipazione alla Eataly, il supermercato del lusso gastronomico inventato da Oscar Farinetti (vedere l’intervista a pagina 51).
Anche Bruno Barbieri, 50 anni e solo apparentemente il meno divo dei tre giudici di Masterchef, dopo la prima edizione del programma ha dovuto cercarsi un ufficio stampa, cosa che non si era resa necessaria né con le trasmissioni di successo su Gambero rosso tv, né come chef itinerante di lusso, né mentre collezionava stelle in Italia con la cucina d’avanguardia, al Trigabolo di Argenta (Ferrara), a Villa del Quar, vicino a Verona, e al Cotidie, nel centro di Londra.
Si sta invece allenando all’impatto mediatico Antonino Cannavacciuolo, giovane cuoco patron di Villa Crespi a Orta San Giulio (Novara), il quale ha portato al Nord lo stile della nuova cucina campana d’alto profilo e adesso è impegnato nella registrazione della prima edizione italiana di Kitchen nightmare, le cucine da incubo (vedere il riquadro a pagina 54) rese famose dal geniale collega britannico Gordon Ramsey, l’uomo che secondo il mensile americano Forbes dal 31 maggio 2011 allo stesso giorno del 2012 ha guadagnato 38 milioni di dollari. Le cucine infernali saranno in onda per 10 puntate la sera su Fox tv, a partire dall’aprile 2013.
Insomma, archiviati comici e veline, i cuochi da spettacolo sono i nuovi beniamini delle agenzie di pr, degli uffici marketing, delle agenzie che organizzano eventi. «Hanno agende fittissime, bloccate per mesi, e per entrarci è una gara: bisogna giocare d’anticipo » assicura Chiara Stefani, responsabile della Fonema di Milano. Certo, le star più sono ricercate e più si fanno pagare. Per uno «show cooking», così si chiama in gergo la preparazione di un piatto davanti a un pubblico, in realtà uno spettacolo dove lo chef può anche limitarsi a dirigere uno spadellamento eseguito dai suoi aiuti, il costo orario può toccare gli 8 mila euro.
D’altra parte, se è vero che per diventare cuochi la cucina bisogna amarla, è anche vero che oggi, per un bravo cuoco, è comunque fondamentale diversificare l’attività, tenendo ovviamente fermo il timone sui fornelli, ma investendo il meno possibile in un locale.
Prendete Simone Rugiati, un animale mediatico conteso dalle televisioni anche senza doversi mettere a cucinare, come è successo con il reality show Pechino Express, andato in onda nel 2012 su Rai 2: un’avventurosa gara a coppie in viaggio con sacco in spalla tra India e Cina. Non ha un suo ristorante, Rugiati, ma è già testimonial della Coca-Cola, della Auricchio e della Ariete, casa di prodotti da cucina. La sua presenza per un paio d’ore vale circa 7 mila euro. Eppure, il suo dicembre era fittamente impegnato da mesi (vedere il riquadro a pagina 51): almeno 16 giorni su 31 riempiti da presentazioni, meeting, cene e trasmissioni. Trentun anni, cultore della forma fisica e dell’abbronzatura calibrata, Simone, detto Simo, rientra nella schiera dei cosiddetti «toy boy» della tavola televisiva, con un mix di ricette semplici e sane (le sue trasmissioni sono Sos Simone e Se in cucina c’è Simone, entrambe su Gambero rosso channel), condite da allegri consigli per la seduzione rapida e indolore (Cuochi e fiamme, su La7). Rugiati sa perfettamente di potere giocare con la sua fama, anche senza ristorante: «Non ne ho aperto uno soltanto perché non mi va» sorride «ma quando mi fermo e ne apro uno, scommettete che la stella me la danno?».
Piace alle spettatrici anche Alessandro Borghese, 36 anni: un esercito di fan soggiacciono come ipnotizzate davanti al televisore ormai dal 2004, a seguire la sua trasmissione Cortesie per gli ospiti su Real Time. Borghese fattura 1 milione di euro l’anno. Questo ovviamente dà soddisfazione, ma impegna: perché c’è la sua società di catering Il lusso della semplicità, e poi la linea di prodotti vegetariani per una multinazionale svizzera, e poi contratti con una compagnia petrolifera, una grossa catena sportiva e i team building aziendali, dove Borghese coordina la preparazione di un menù tra colleghi che per un pomeriggio dimenticano di doversi fare le scarpe per fare (invece) squadra.
C’è chi invece affronta e vince la scommessa di trasformare il modello italiano della trattoria paterna in un’impresa-famiglia: diventare un’azienda mantenendo le originarie caratteristiche artigianali è difficile per chiunque, figuriamoci in cucina. Ci sono riusciti i Cerea con il loro Relais & chateaux Da Vittorio a Brusaporto, vicino a Bergamo: un superristorante con una decina di suite, affiancato dalla pasticceria di Bergamo Alta, dalla scuola di cucina, da un catering di altissimo livello, capace di soddisfare da 10 a 1.500 invitati in ogni parte del mondo.
Il gestore è Enrico Cerea (detto Chicco), chef dalle 3 stelle Michelin, che accanto ha la madre Bruna e, in scala dai 35 ai 48 anni, i fratelli Francesco, Roberto (detto Bobo), Rossella e Barbara. Insieme hanno mantenuto un rilassante dna culinario lombardo, lontano dalle stravaganze ma affinato nelle tecniche. Pare che l’offerta di gestire il ristorante che i Cerea hanno aperto a Natale nello storico Carlton hotel di Sankt Moritz sia nata dalle lacrime di felicità sgorgate dagli occhi dei vip all’assaggio del loro risotto, spiedo, e buffet dei dolci durante un’esibizione al locale Food festival, momento di culto nella rinata capitale del lusso montano.
Infine c’è un altro tipo di power chef. È il più inafferrabile; lavora e recita in presa diretta senza maquillage, registi, differite: è l’oste contemporaneo, il gestore di un locale che riesce nell’arte di fare sentire ogni ospite al centro delle attenzioni e a casa propria; uno chef capace di organizzare un ristorante come il luogo dove tutti stanno bene insieme a tutti, dove c’è la riservatezza e anche l’allegria, dove la qualità della cucina è comunque garantita. Ce ne sono pochi, ma si può eccellere: è riuscito a Filippo La Mantia, 47 anni, il cui ristorante romano è diventato il centro di gravità della nomenclatura a cavallo fra politica, business e spettacolo. Registra 55 mila presenze l’anno, dà lavoro a una brigata di 45 persone e aumenta di molto il fatturato anche in tempo di crisi, rifiutando la tv a favore della radio («Mi piace di più la chiacchiera dal vivo» spiega) e promuovendo il consumo responsabile: «Da anni lavoro con associazioni che si occupano di recupero del cibo».
Qual è il suo segreto? «Essere siciliani» scherza La Mantia. Ma aggiunge: «In realtà io lavoro 18 ore al giorno: a mezzogiorno sono in sala, alle 3 mi metto in cucina, alle 19 comincio ad accogliere i clienti. E rientro a casa alle 3 di notte. Non spengo mai il cellulare, non aumento i prezzi, da me si può mangiare anche una frittata e spendere soltanto 10 euro, ma sempre dentro magnifici spazi, con una bella atmosfera e con la grande comodità di un “car valet” all’ingresso».
Una scelta non lontana da quella di Oldani, attento gestore del ristorante D’O a Cornaredo (Milano): nel 1992, appena ventenne, faceva da spalla al suo maestro Gualtiero Marchesi nel programma Ristorante Italia su Rai 1, ma aveva già capito che voleva fare il cuoco vero, nelle cucine vere. Una decisione saggia, perché nell’animo dei «television chef» si sta insinuando un dubbio sul troppo successo, che esige sfide progressive con angolature sfiziosamente sadiche. Come definire altrimenti il nuovo reality Ale contro tutti, in onda su Sky e su Cielo, dove Borghese passa da giudice a giudicato e viene sfidato da una famigliola nella preparazione dello stesso piatto, poi votato alla cieca da tre giudici, fra i quali un bambino?
Forse è di questa minaccia che ha avuto un anticipato sentore Gianfranco Vissani, il vero iniziatore della saga degli starchef, l’uomo che ha battuto ogni record di durata sul piccolo schermo a partire dal celebre risotto cucinato per Massimo D’Alema nello studio di Porta a porta, nel 1997. Oggi Vissani si dichiara ufficialmente «pentito» della troppa tv in nome della cucina casalinga e prende posizione contro i cuochi che fanno eccessivamente spettacolo di sé. A 61 anni Gianfranco ha ratificato la svolta con il volume L’altro Vissani, sottotitolato «ricette di famiglia»: un amarcord di piatti ispirati agli anni Cinquanta.
Sarà... Intanto, però, lo chef è andato in onda su La7 ogni domenica alle 10 con Ti ci porto io, che ora l’emittente ha deciso di chiudere. «Ma la tv è stata una necessità, come lo è Divine creazioni, la linea che firmo per la Surgital» tuona Vissani. «Come potrei altrimenti mantenere gli standard costosissimi richiesti dalla grande cucina? Con me lavorano 20 professionisti; facciamo il pane nel forno a legna due volte al giorno, le materie prime sono freschissime e preziose, eppure con quattro sere di apertura a settimana non arrivo a una media di 70 coperti».
Se Vissani ha ragione, i grandi chef non si salveranno comunque dal loro destino: saranno sempre più condannati alla trasferta perpetua fra trasmissioni, consulenze, forum gastronomici... Perché è vero che la fama, come diceva Leonardo da Vinci, «è meglio evitarla se vuoi la pace». Ma il genio Leonardo aveva un solo difetto: non è mai stato cuoco.