Marco Masciaga, ilSole24Ore 28/12/2012, 28 dicembre 2012
PER RATAN TATA COMPLEANNO E ADDIO
In uno slum di New Delhi, una famiglia si disseta grazie allo Swach, un apparecchio da 899 rupie (12 euro) che rende potabile l’acqua che sgorga dalla fontana nel mezzo della baraccopoli. Contemporaneamente a Colaba, uno dei quartieri più eleganti di Mumbai, il chief executive officer di una multinazionale americana fa il check-in al Taj Mahal Palace & Tower, uno degli alberghi più eleganti e carichi di storia di tutta l’Asia.
La famiglia che vive con nulla e il top manager in viaggio d’affari si muovono ai due estremi dell’India moderna e sembrano non avere nulla in comune. Ma entrambi sono clienti della Tata, la conglomerata più grande del Paese, un colosso da 100 miliardi di dollari di fatturato (più di metà realizzati all’estero) che dà lavoro a 450mila persone in tutto il mondo. È anche per questo che quando – proprio oggi, 28 dicembre – Ratan Tata compie 75 anni e lascia la guida della holding Tata Sons per la terza economia dell’Asia è un momento epocale. Perché non c’è una società con una presenza tanto pervasiva nella vita quotidiana di oltre un miliardo di indiani. E perché non c’è un imprenditore che abbia incarnato meglio di questo parsi elegante e schivo l’India moderna e capitalista con cui il resto del mondo farà i conti per i decenni a venire. L’India nata dopo le riforme del 1991, anno in cui (l’uomo è fortunato, bisogna ammetterlo) lui prese le redini del gruppo. Nei venti anni abbondanti che sono seguiti al suo insediamento è successo moltissimo. Sia a valle di Tata Sons, dove prosperano, vivacchiano o perdono soldi senza che nessuno si strappi i capelli qualcosa come 182 aziende; sia nel Paese nel suo complesso. Sul piano imprenditoriale l’eredità lasciata da Tata ha più a che fare con la crescita che con la razionalizzazione di un impero con 144 anni di storia. Il gruppo continua a essere popolato di società dalla redditività modesta, ma in compenso ha visto letteralmente esplodere alcune linee di business come l’information technology.
Sul piano etico il lascito per il suo successore Cyrus Mistry - 44enne parsi, figlio di un grande azionista e primo non membro della famiglia al vertice - non è meno interessante. Tata Sons, che è controllata per due terzi da un trust che lo scorso anno ha dato in beneficenza più di 100 milioni di dollari, resta un unicum nel panorama finanziario indiano dove, per il momento, le richieste di donazioni sollecitate da Bill Gates e Warren Buffett non hanno fatto breccia. Non solo, nonostante abbia ricoperto un ruolo tanto importante così a lungo, Ratan Tata continua a spiccare nella classifica degli uomini più ricchi dell’India più per la sua assenza dalle prime cento posizioni che non per i suoi guadagni.
Eppure nei suoi anni dedicati al gruppo, Ratan Tata - che non è sposato e non ha figli - non ha certo lesinato le energie dedicate al lavoro. Lasciando il sospetto nei suoi interlocutori che la sua bella voce bassa non fosse tanto un dono della natura quanto il lascito di troppe notti insonni, passate a studiare (con alterne fortune) nuove opportunità di business. Gli esempi non mancano. Quando Tata lanciò la Nano, l’automobile meno cara di sempre, molti credettero che per l’India fosse l’alba della motorizzazione di massa. Ma fu un flop. Quando acquisì Jaguar e Land Rover, due marchi che da anni regalavano ariosi buchi di bilancio a chiunque li controllasse, la sua sembrava la follia di chi voleva a tutti i costi dimostrare qualcosa agli ex dominatori coloniali. E fu un successo. Sono questi due episodi che forse racchiudono al meglio la lezione che Ratan Tata lascia a chi voglia fare impresa in India. Il paese - vasto, complesso, contraddittorio - resta un mistero insondabile anche per chi ci è nato. E pensare che per sedurre i suoi consumatori basti fare prodotti a buon mercato è un’illusione che rischia di costare cara.