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 2012  dicembre 28 Venerdì calendario

STATI UNITI D’EUROPA MEGLIO DEGLI USA


Se l’Europa non fosse una «mera espressione geografica» ma un vero Stato federale, avrebbe le spalle ben più larghe di quelle statunitensi. Avrebbe un debito pubblico inferiore di 13 punti percentuali sul Pil rispetto a quello Usa e metà del deficit. E, magari, potrebbe investire sulla crescita. Purtroppo gli Stati Uniti d’Europa non esistono: così la crisi, nata negli Usa, si accanisce solo su di noi.
A guardare gli indicatori di finanza pubblica, gli Stati Uniti appaiono più come un colosso dai piedi d’argilla che come una potenza economica. Il debito pubblico, lievitato per salvare banche, mutui ed economia, è oggi su livelli quasi italiani: in rapporto al Pil si trova al 104,8%. Ogni giorno questo fardello aumenta di 3,5-3,8 miliardi, nonostante i tassi d’interesse bassissimi. Si tratta di 146 milioni di dollari all’ora, notte inclusa. Due milioni e mezzo al minuto.
Il problema è che questa è solo la punta dell’iceberg. Se a questa montagna da oltre 16mila miliardi di dollari si aggiunge infatti il debito locale dei singoli Stati, allora il totale sale di circa il 17-18%. Si arriva dunque al 121-122% del Pil. Livello italiano. E se si somma anche almeno una parte degli impegni che Washington si è assunta per garantire i mutui, salvando Fannie Mae e Freddie Mac, il debito pubblico statunitense – secondo alcune stime – raggiungerebbe il 140% del Pil. Per contro l’area euro (che nel conteggio include i debiti delle amministrazioni locali, a differenza degli Usa) ha un debito complessivo pari al 91,6% del Pil (dati Bce). Se si guarda il deficit dello Stato, il divario è ancora più pronunciato. Il "rosso" statunitense, rapportato al Pil, è il doppio di quello europeo: 7,3% oltreoceano, 3,6% nell’area euro secondo le ultime stime della Commissione.
Eppure nessuno pone mai seriamente il problema della sostenibilità delle finanze pubbliche statunitensi, mentre le fragilità di quelle europee sono sulla bocca di tutti. Il motivo principale è banale: l’Europa non esiste. I 17 Stati dell’area euro hanno solo una cosa in comune: la valuta. Gli Stati Uniti, invece, sono un vero Stato federale. E, oltre a questo, hanno almeno tre punti di forza che fanno la differenza vera: la Fed, una storica credibilità internazionale, il dollaro.
Il fatto che il dollaro sia la principale valuta di riserva mondiale è uno dei grandi vantaggi degli Stati Uniti: perché obbliga le banche centrali di mezzo mondo a comprare i loro titoli di Stato. Quella cinese – secondo i dati a fine ottobre del Tesoro Usa – ha in mano 1.161 miliardi di dollari di titoli di Stato americani. Quella del Giappone 1.134 miliardi. I Paesi esportatori di petrolio, che investono in dollari i proventi (in dollari) dell’oro nero, detengono 266 miliardi di dollari: il 7% in più rispetto a un anno fa. Questo crea un bacino naturale di investitori per i titoli di Stato americani. A questi si aggiunge la Federal Reserve, che dal marzo 2009 ha comprato mille miliardi di dollari di titoli di Stato Usa: attualmente ne detiene in bilancio 2.805 miliardi. Ecco perché i T-Bond, nonostante la precarietà dei conti pubblici, offrono tassi d’interesse di appena l’1,7% sulla scadenza decennale: hanno un bacino di acquirenti istituzionali, dietro i quali si accoda il mercato.
L’altro grande punto di forza – almeno per ora – è la Fed. Una banca centrale che ha come obiettivo la crescita economica, disposta a qualunque politica monetaria pur di raggiungere l’obiettivo. E, allo stato attuale, ci è riuscita, anche se l’immensa liquidità iniettata sul mercato rischia di creare danni futuri. Tutto questo, unito ad una grande credibilità internazionale per quanto riguarda la prontezza d’azione in caso di crisi, sostiene gli Stati Uniti. E, per contro, affossa l’Europa. Morale: le debolezze del bilancio statunitense vengono cancellate dai punti di forza storici e politici, mentre le virtù dei bilanci europei vengono vanificate dalle debolezze politiche. Fin che, anche negli Usa, la corda non si spezza. Oppure, in Europa, non si decida di fare un passo in avanti nell’integrazione.

Morya Longo
m.longo@ilsole24ore.com