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 2012  dicembre 28 Venerdì calendario

IL FISCAL CLIFF E IL CORAGGIO DELLE SCELTE


Esistono sulla scena americana due signori decisamente vispi e lucidi e ricordare che cosa hanno detto e fatto, uno poco meno di 30 anni fa e l’altro poco più di dieci anni fa, il primo da ministro del Bilancio e il secondo da ministro del Tesoro, aiuta a capire meglio storia – molto antica ormai – e proporzioni del fiscal cliff, il “baratro fiscale” nel quale gli Stati Uniti ormai stanno precipitando. C’è chi dice che non è poi così grave. In effetti c’è chi sostiene trattarsi di poco più di un passaggio contabile malaccorto inopinatamente introdotto circa un anno fa. E c’è chi dice che il problema è invece strutturale, e se non risolto a giorni sarà un disastro della politica destinato a diventare rapidamente e in pochissimi mesi un disastro dell’economia. L’Italia viveva un anno fa o poco più un suo fiscal cliff dettato dai mercati, dubbiosi sulle capacità di Roma di onorare alla lunga il proprio debito. L’America vuole evitare questo rischio, che avrebbe sui mercati ben altre proporzioni e conseguenze visto che l’America non è l’Italia, e mantenere una fiducia dei mercati finora solida. Ma per farlo ha innescato un meccanismo che ora funziona come una bomba ad orologeria. E non si capisce come la politica possa facilmente disinnescarlo. L’espressione fiscal cliff, baratro fiscale, è in uso dalla fine del 2010 ed è stata rilanciata con forza a fine febbraio 2012 dal presidente della Federal reserve, Ben Bernanke. Parlando alla Camera disse che «un profondo baratro fiscale fatto di grossi tagli di spesa e aumenti di tasse» avrebbe colpito il Paese se la politica non disinnescava il rischio, accordandosi dove tagliare la spesa e dove aumentare le imposte. Il fiscal cliff era stato allora inserito da pochi mesi nel sistema in base al Budget Control Act dell’agosto 2011. Il Bca prevedeva che se una commissione mista del Congresso non fosse riuscita a ridurre il deficit di 1.200 miliardi in dieci anni entro il novembre 2011, sarebbero scattati a partire dal 1° gennaio 2013 tagli automatici di spesa e aumenti automatici di tasse, con la fine delle riduzioni fiscali di Bush figlio del 2001-2003 e varie altre misure. Se succede saranno, tra più tasse e meno spesa, 600 miliardi in meno per l’economia nell’anno fiscale 2013, e la recessione assicurata. David Stockman, ministro del Bilancio di Ronald Reagan dal 1981 al 1985, lanciò in una famosa intervista un primo allarme a fine 1981, 32 anni fa quindi, e uno, più circostanziato, nel libro pubblicato nel 1986 con il titolo The Triumph of Politics. La rivoluzione reaganiana aveva fallito, diceva Stockman, non tanto per i tagli fiscali (Reagan tagliò due volte e aumentò due volte, con un saldo quasi pari), ma per i mancati tagli alla spesa.
E poiché molti repubblicani sono tenaci contro le tasse ma si dimenticano di ridurre le spese, il finale sarà un disastro, diceva sette mandati presidenziali fa Stockman, che resta oggi un vivace polemista su questi temi. Paul O’Neal, ministro del Tesoro di Bush figlio dall’inizio del 2001 a fine 2002, ebbe il coraggio di dire apertamente e in pubblico che era un errore diminuire le tasse, e fece preparare uno studio che avrebbe voluto allegare alle previsioni per l’anno fiscale 2003. Diceva che il paese si avviava ad avere deficit da 500 miliardi di dollari l’anno, strutturali, che occorreva mettere in linea le entrate ed uscite. «Reagan ha dimostrato che i deficit non contano», fu la risposta dell’allora potente vicepresidente Dick Cheney, cui O’Neall si era rivolto per comprensione. Fu invece licenziato. Raccontò tutto in un libro del 2004 del giornalista Ron Suskind, The Price of Loyalty, che resta uno dei passaggi obbligati per capire l’America di questi anni. I deficit strutturali sono diventati con Obama, causa crisi, di 1200-1.000 miliardi l’anno. La chiara vittoria di Obama alle presidenziali del novembre 2012 aveva generato la speranza che sarebbe passata senza eccessive difficoltà l’agenda del presidente per evitare il fiscal cliff, fatta di aumenti fiscali sui più abbienti (ma anche in America per raccogliere gettito il concetto di abbiente va spinto piuttosto verso il basso) e di tagli rimasti sempre un po’ ambigui. Toccavano o no Social Security, cioè pensione pubblica e Medicare, cioè sanità pubblica per gli over 65? Ma se la vittoria per la Casa Bianca è stata netta, ha lasciato però una Camera saldamente in mano repubblicana, e vi sono stati ad esempio ben 15 distretti dove Obama ha vinto le presidenziali ma un repubblicano ha vinto il seggio. E questi repubblicani, a grande maggioranza radicali, non hanno nessuna intenzione di cedere e ritengono di avere un mandato non inferiore a quello del presidente, nel sistema di divisione dei poteri. Nella storia presidenziale americana alcuni grandi negoziatori, come Abraham Lincoln o Lyndon Johnson, furono capaci di guadagnarsi voto dopo voto, con blandizie, promesse, regalie ai collegi elettorali e tutto il possibile, le maggioranze necessarie. Obama è un grande candidato, un tessitore di visioni oratorie, ma sembra meno a suo agio nel "lavoro sporco" della politica. Non si sa come andrà a finire e sarà, forse e probabilmente, uno psicodramma. Il Tesoro si prepara intanto a una sorta di gestione provvisoria, visto che il 31 dicembre il debito raggiungerà il tetto massimo fissato per ora per legge a 16.390 miliardi, e che già in passato, lontano e recente, è stato rialzato dozzine di volte da Congresso. Il fiscal cliff rende però ora l’operazione più incerta. Paul Volcker, l’ex presidente Fed che resta un riferimento ideale per chi spera in un’America meno imbarazzata e imbarazzante, ha detto più volte che conti nazionali avviati sulla strada del risanamento sono condizione essenziale perché il paese torni ad essere quel principio di stabilità ed ordine che è stato in passato. E che dall’ottobre 2008, dalla crisi finanziaria, non è più, non più come una volta.