Angelo Aquaro, la Repubblica 28/12/2012, 28 dicembre 2012
L’ULTIMA COPERTINA DI CARTA È ORMAI IN CORNICE. IL MAGAZINE DIRETTO DA TINA BROWN SARÀ SOLO SU TABLET E ONLINE. ECCO COME È CAMBIATO
«Siamo ancora fermi lì? Non servirà un refresh? ». Altro che refresh. A furia di rinfrescare l’homepage, la prima pagina del sito web di Newsweek, Tina Brown ha finito per infracidire il giornale di carta. Che da oggi non ci sarà più: per andare solo sul tablet e online. Ma vi sembrerà mica il momento per le lacrime? La direttora passa veloce accanto alla parete dove i quattro megaschermi sono accesi 24 ore su 24 sui grandi canali all news: e ovviamente sulla prima pagina del sito di
Tina chiede — giustamente — di rinfrescare.
Gonna nera aderente ma lunga fin sotto al ginocchio, chiodo di pelle colora panna, la signora venuta da Londra, che già una volta aveva ridato vita a un glorioso ma acciaccatissimo magazine Usa (stanno ancora tutti bene laggiù al New Yorker, sì?), passa in rassegna le truppe già ormai tempo schierate sul doppio risiko di carta e digitale. L’ultima copertina di carta, 31 dicembre 2012, è lì, alla fine della fila che raccoglie tutte le altre cover firmate Tina, appese con le mollettine su una parete della gigantesca newsroom qui al piano nobile della nave di vetro costruita nella snobbissima Chelsea da Frank Gehry, la grande archistar americana.
Ritorno al futuro: l’ultima copertina di Newsweek è una staffetta nel tempo. Mostra il grattacielo che fu la storica sede del settimanale, Midtown Manhattan, naturalmente in bianco e nero, con sopra la scritta a colori #LastPrintIssue, l’ultimo numero di carta, con davanti l’hashtag che è il segno principe del linguaggio di Twitter: la lingua appunto del futuro.
Ma le staffette non si improvvisano. E il passaggio di testimone dalla carta al web non è stato certo deciso quel maledetto 18 ottobre in cui direttore ed editore annunciarono al mondo che non potevano più continuare a perdere 40 milioni di dollari all’anno. Seduta nel suo ufficio dalle pareti di vetro, una porta sulla redazione e le finestre che danno sull’Hudson, l’immancabile cup of coffe sul tavolino, bianco come la piccola libreria alle spalle, Mrs. Brown l’aveva confessato al cronista italiano andato a farsi raccontate che cosa si prova a diventare la prima donna alla guida del secondo newsmagazine al mondo. «La cosa più entusiasmante di lavorare al Daily Beast è questo essere circondata da donne: c’è un’energia incredibile. E lavorare al Daily Beast mi dà una tale gioia...». D’accordo, direttore, ma lei dice sempre Daily Beast, Daily Beast, Daily Beast: eppure ormai è il direttore di Newsweek...
«Lo so, lo so. Però, ecco, il Daily Beastl’abbiamo inventato noi: da zero. E il futuro, lo sappiamo, è quello lì».
E già. Nessuno obiettò che questo matrimonio non s’aveva da fare quando, poco più di un anno, fa andarono a nozze il vecchio Newsweek e il giovane Daily Beast, il sito fondato da Tina con i dollari di Barry Diller, l’ex genio della Paramount e oggi padre padrone della Iac, InterActiveCorp, la supercompagnia web che controlla di tutto, da OkCupid, supersito d’appuntamenti, a Vimeo, l’anti-YouTube. Però si capiva che NewsBeast, com’è stata subito ribattezzata, era una creatura rischiosamente sterile. “Bittersweet!” ha twittato l’altro giorno la direttora presentando l’ultima copertina: agrodolce come il sapore di ogni addio che — si spera — è per il meglio. Ma nessun matrimonio riparatore avrebbe potuto riparare l’irreparabile. «Non puoi cambiare un’epoca segnata da un passo d’innovazione che a volte è anche distruttivo» s’è confidata Tina con David Carr, l’espertone di media del New York Times.
«Nessuno può cambiare da solo quella tendenza: non puoi fermare quello che è un trend inesorabile ». Inesorabile, adesso, come il sacrificio della redazione.
No, l’ultimo giorno di Newsweeknon ha riproposto, deo gratias, le immagini tristemente famose degli esodi d’impiegati carichi di scatoloni. Ricordate gli ultimi giorni di Lehman Brothers? I bancari che lasciavano il grattacielo di Wall Street erano davvero la fotografia di una fine di mondo: e non per niente quel 15 settembre 2008 ha finito per segnare simbolicamente l’inizio dell’apocalisse finanziaria. Oggi ha ragione la signora a rivendicare la pur breve riscossa della sua gestione di carta. «I primi giorni» scrive «promettevano particolarmente male. Tante grandi firme e tante stelle che avevano definito il marchio erano già volate via prima ancora che il nostro contratto fosse concluso.
Newsweek non aveva direttore, non aveva caporedattore, non aveva il responsabile dei commenti, non aveva il capo dell’ufficio politico di Washington. Pure gli investitori se l’erano filata: e a frotte. E quel Newsweek che una volta si stagliava nel suo grattacielo, con la sua orgogliosa testata che svettava all’orizzonte del suo spavaldo rivale, lì nel Time-Life Building, era adesso nascosto in un labirinto di uffici vicino a Wall Street che ricordava, piuttosto, il quartier generale della Stasi a Berlino Est». Che prosa, eh?
Più prosaiche sono naturalmente le lettere di licenziamento che Tina ha dovuto firmare comunque con l’addio alla carta. Sì, i reporter inchiodati agli schermi dei Mac da 21 pollici sanno di essere comunque fortunati. Going digital, cioè trasformarsi in un magazine solo digitale, per i tablet e per il web, vuol dire comunque salvare la sedia. Anche stavolta, naturalmente, chi poteva ha saltato il fosso. Quando un paio d’anni fa
Newsweek cominciò a scricchiolare il primo a fare le valige fu la stella della Cnn Fareed Zakaria: passato al rivale Time.
Oggi i transfughi si chiamano Mark Miller, uno degli uominimacchina più richiesti d’America: proprio Mrs. Brown l’aveva convinto a tornare al settimanale che lui pure aveva abbandonato l’anno prima. Oppure Robin Givhan, la regina Usa della moda, premio Pulitzer e confidente in cose di fashion perfino di Michelle Obama. E adesso?
Dicono che l’entusiasmo della direttora sia comunque contagioso. E l’immensa mappa del mondo intermittente che ti accoglie nella lobby della “nave” di Gehry sembra darle ragione. Ogni puntino che si accende è un signore che in quel momento sta leggendo NewsBeast online. Uno dei 15 milioni che ogni giorno si affacciano sul suo sito: dalla California agli Urali. Un traffico cresciuto del 36%in un anno. E fa giustizia dei lettori di carta dimezzati da 3 a 1 milione e mezzo.
Per non parlare della pubblicità crollata dell’80 per cento. Sì, forse ha davvero ragione Mrs. Brown. Che quando l’anno scorso s’è trasferita qui, nel palazzo di vetro, non ha scelto l’affaccio, magnifico, sul mitico Empire State Building: ma quello appunto sull’Hudson e sul New Jersey. Un vero newyorchese non l’avrebbe mai fatto: affacciarsi sui quei burini del Jersey Shore?
Ma le cose cambiano. Oggi l’ufficio nel quale sognano di affacciarsi i giovani reporter non è il cubicolo di Tunku Varadarajan, indiano come Zakaria e avviato alla sua carriera di star, appena promosso a capo di
Newsweek Global, la nuova edizione interattiva e internazionale. No, l’ufficio più ambito è l’open space di Beast Tv, la televisione online che dal nulla ha già uno zoccolo duro di 2.2 milioni di spettatori.
Le cose cambiano. Ma per controllare che non cambino troppo ogni tanto qualcuno s’infila in ascensore, sale su fino al nono piano e butta l’occhio col cannocchiale piazzato lì in cima proprio in direzione della Statua della Libertà che si staglia dietro l’Hudson: sì, è ancora lì. «Questo non è un giornale convenzionale » dice il direttore nell’editoriale d’addio alla carta: proprio alla vigilia degli 80 anni che Newsweek compirà a febbraio. «Ed è con questo spirito che stiamo affrontando il nostro ultimo, storico cambiamento. Abbracciando quel medio digitale che tutti i nostri rivali un giorno dovranno affrontare con lo stesso fervore. Noi siamo già avanti nella curva». Avanti, avanti col refresh.