Umberto Broccoli, Sette 28/12/2012, 28 dicembre 2012
QUANDO L’ITALIA SCOPRÌ DI ESSERE UN VERO PAESE
[Si rimuovono le macerie, entra in vigore la Costituzione,
si accendono i motori della Vespa. Comincia il dualismo.
Povertà, guerra fredda e pressioni Usa condizionano la politica] –
1948 anno fondante per la storia del nostro Paese. Fondante per la storia della prima repubblica, perché nasce la prima repubblica. E nasce di sana e robusta costituzione. Un anno difficile, un anno dal segno meno: meno di mille giorni dalla fine della seconda guerra mondiale e meno una settantina di milioni di persone al mondo, morto più o morto meno. Già perché nei bilanci di una guerra, da un certo momento in poi diventa tutto approssimativo: chi ha vinto, chi ha perso, chi è vivo, chi è morto. In Italia è ricostruzione su un percorso difficile con salite, discese e strade disastrate. E non è solamente una metafora della situazione, è anche e soprattutto una metafora dell’esistente: le case sono distrutte o diroccate, le strade sono spesso interrotte e, comunque, devastate. Tendenzialmente, si circola a piedi invidiando chi ha una bicicletta. Corradino d’Ascanio ha inventato la Vespa per la Piaggio: ma chi se la può permettere? È un sogno: ha il fanale sul parafango anteriore, un sellino unico per il guidatore, un altro per il passeggero. E se si buca su quelle strade rovinate? C’è anche la ruota di scorta. Nasce nel 1946 e la genialità di d’Ascanio immagina di impiegare come motore il motorino di avviamento degli aerei da guerra. Come dire: reimpieghiamo tutto, e non si butta via nulla. È “La piccola vettura a due ruote e costa 80.000 lire”, come dice lo slogan pubblicitario alla radio e sui giornali. Non si vedeva il motore e i paragambe permettevano di viaggiare puliti. Inizialmente non era facile da guidare (con quelle rotelline giocattolo) ed era brutta a vedersi («Sembra una vespa», pare fosse il primo commento davanti al prototipo). Poi inizia a diffondersi come simbolo involontario della ricostruzione. Nel 1948 aveva già fatto il giro del mondo contribuendo a consolidare una caratteristica italiana: in ginocchio come tutti dopo la guerra, ma in grado di ricostruire reimpiegando materiali e il genio nell’adattare e adattarsi. Quel motorino di avviamento montato su una scocca di lamiera viaggia in Europa, supera gli oceani si affaccia in Oriente e – in Occidente – con i suoi settanta chilometri all’ora scarsi, va a competere con i tre fari delle Harley Davidson del mito americano. Paradossalmente, ne circolano meno in Italia, forse perché nell’Italia del 1948 circolavano meno soldi. Ma «è merito del mio governo aver dato il motoscooter al popolo», parola di Alcide De Gasperi. E non solo: «Lo scooter ha elevato il livello di vita di categorie sociali che non possono disporre di mezzi più costosi e ha concesso un onesto divertimento cui aspira un giorno la settimana chiunque passi le altre giornate dedite alla fatica», parola di Eugenio Pacelli, papa Pio XII. Per cui, fra le immagini caratteristiche di quell’immediato dopoguerra c’è senz’altro quella delle strade con una circolazione provvisoria: camion militari riadattati a scopi civili carichi di persone da trasportare, tante biciclette, e qualche scooter.
Schieramenti. E questi scooter di domenica si coloravano di festa, con lui imbrillantinato, sigaretta in bocca, pantaloni e camicia chiara a guidare la Vespa con le braccia tese, gamba sinistra allungata in avanti per far sporgere la scarpa lucidata, la destra appena ripiegata. Una volta messa la terza marcia, si poteva guidare con una mano sola (la destra) e con la sinistra indicare il paesaggio a lei, seduta con tutte e due le gambe dalla stessa parte e resto del corpo rivolto verso la schiena di lui, a sua volta appoggiata discretamente ad avvertire il seno di lei, a sua volta ritratto (ma non troppo) dalla schiena di lui, fazzoletto a tenere i capelli, gonna lunga svolazzante per la gioia dei pedoni maschi in transito. È l’Italia del post referendum monarchia/repubblica, da allora e per sempre il Paese delle rivalità nel dualismo: l’italiano, da allora, si deve schierare. L’Italia politica è schierata, divisa dialetticamente tra De Gasperi e Togliatti, tra democristiani atlantici e comunisti oltrecortina (benché tutti e due al governo fino ai primi mesi del 1947). Di conseguenza, ogni motivo è buono per disputare un derby da bar, contrapponendosi nel dualismo bipolare: da De Gasperi/Togliatti deriva indirettamente Vespa/Lambretta. Infatti nel 1947, prima e dopo ogni giornale radio, si diffonde la pubblicità della Ditta Innocenti: «Motoscooter Lambretta, il motoscooter per tutti». Si crea curiosità e all’inizio non si sapeva cosa fosse esattamente: si immaginava potesse essere un motoscafo e difficilmente un motoscafo sarebbe potuto essere per tutti. Quando esce la pubblicità della Lambretta (fabbricata sul fiume Lambro) si capisce e si svela l’arcano. Nasce il primo modello di Lambretta, con pedana e paraschizzi, e due tubi ricurvi che uscivano dalla forcella anteriore diventando il manubrio, con il fanale in alto, fra le corna del manubrio. Anche questa con due sellini e ruota di scorta. E puntuale arriva la contrapposizione tra vespisti e lambrettisti, senza esclusione di colpi. Tra una schedina della Sisal giocata e un caffè corretto, non si risparmiano insulti: «Sembra un cacatoio con le ruote» dicevano i lambrettisti commentando la forma della Vespa. «La Lambretta è una copia industriale, figlia di industriali, nella regione degli industriali, non come la Vespa nata nella Toscana operaia», rispondevano i vespisti, colorando la replica di politica. E già: perché inevitabilmente il dualismo doveva sfociare in politica. La Vespa era rivoluzionaria e di sinistra, mentre la Lambretta ammiccava alla destra conservatrice. Così come l’altro dualismo storico di quegli anni, lacerati fra Coppi e Bartali: Coppi come Togliatti, Bartali come De Gasperi. E questo modo di affrontare i problemi aperti nasce più o meno in quel momento e rimbalza fino ai giorni nostri, rendendo gli argomenti un corollario da aperitivo, piuttosto che una contrapposizione dialettica. Da allora: Loren contro Lollo, Callas contro Tebaldi, Gianni Morandi contro Claudio Villa, Mazzola contro Rivera, e via giustapponendo. Senza dimenticare di dare sempre una coloritura vagamente politica, per rafforzare il teorema «questo è meglio di quello». Ma forse c’è un altro simbolo di quel 1948. Un simbolo oggi dimenticato completamente: ieri, protagonista addirittura di una canzone di successo, cantata da Flo Sandon’s e Natalino Otto, Ti porterò sul Cucciolo. Ecco la strofa: «Forse un bel sogno tu porti in cuor / Sogni che ti regali l’otto cilindri color marron / io milionario non sono ancor / e per accontentarti tesoro bello sai che farò». Piccola pausa per introdurre il ritornello, il tutto al tempo di un valzerino accattivante. Parole semplici di Dino Olivieri e Nino Rastelli. Semplici, ma fino a un certo punto. In realtà, già nella strofa si rivelavano i sogni di quell’Italia in maniche di camicia rimboccate: lei, la fidanzata, alla quale lui vorrebbe regalare un’auto sportiva, anche se – al momento – non ha i soldi per poterselo permettere. Ma nel testo, la speranza: «Io milionario non sono ancor». “Ancor”: quindi era possibile immaginare di diventarlo, impegnandosi nella ricostruzione in maniche di camicia rimboccate, perché il domani esisteva e non era sparito dai sogni dei ragazzi di quel 1948. Anzi: guardando allo ieri distante solamente tre anni (1945), il domani sarebbe potuto essere solamente migliore.
Nuovi orizzonti. Cosa c’era di peggio della guerra, della fame, della povertà, dei bombardamenti, di una vita vissuta al minuto secondo, immaginando un regalo ogni minuto secondo (soprav)vissuto? E allora, in attesa di diventare milionario e di poter regalare un’auto sportiva alla morosa, ci si poteva accontentare così, come dichiarava il ritornello: «Se vuoi venir con me ti porterò sul Cucciolo / il motorino è piccolo, ma batte come il mio cuor / per monti e per città andremo velocissimi / uniti e felicissimi dove ci porta l’ amor!». Il Cucciolo era un “motorino”, un motorino in senso stretto, un piccolo motore da applicare (assieme a un pedale) alla ruota posteriore della bicicletta per trasformarla nel nonno inconsapevole del ciclomotore e rendere più facile la vita a quel popolo italiano di ciclisti che, non solo non si potevano permettere l’automobile, ma vedevano come un miraggio il “Galletto” della Guzzi o la “Gilera otto bulloni”: per cui in quel 1948, qualche fortunato poteva acquistare il bicimotore. 39.000 lire, 4 tempi, 48 centimetri cubici, 40 chilometri l’ora, quasi 100 chilometri con un litro, per una soluzione di compromesso: “l’otto cilindri, color marron” era un miraggio, non erano raggiungibili le 80.000 lire per comperare una Vespa o una Lambretta, ma si poteva trasformare una bicicletta normale in una bicicletta super, in grado di far risparmiare le forze nelle salite (tante) per arrivare meno stanchi alle discese (comunque difficili da gestire su quelle strade ridotte male). Una scelta ancor più democratica, a sparigliare le discussioni parapolitiche tra vespisti e lambrettisti. Chi aveva il Cucciolo era certamente più fortunato di un ciclista semplice, ma sempre meno di un Vespista o di un Lambrettista e largamente meno privilegiato di chi aveva una “otto cilindri color marron”. Ma le ragazze amavano il “cucciolo”, complice anche la pubblicità. A Bologna, nei Giardini Margherita, un cartellone mostrava un uomo mentre regalava alla sua fidanzata un cucciolo, questa volta un cuccioletto di cane, volendo richiamare indirettamente il bicimotore, prodotto dalla SIATA di Torino prima, e dalla Ducati poi. E, quindi un cucciolo, due cuori e una capanna: oppure il Cucciolo due cuori e un motorino, in quell’Italia del millenovecentoquarantotto. Simbolo forte, perché ti aiutava a camminare, ad andare avanti, ma – comunque – dovevi faticare sul pedale, nella prospettiva di vivere nel benessere dopo aver fatto ogni sforzo necessario. E, nemmeno a farlo apposta, questo motivetto accattivante, cantato e fischiettato un po’ ovunque, era trasmesso alla radio il 27 dicembre del 1947, poco prima del segnale orario delle ore 20 e del notiziario principale della giornata. Quello atteso da tutte le famiglie, quello durante il quale si alzava il volume dell’apparecchio radiofonico e si guardava dentro l’altoparlante per concentrarsi meglio. È sera: la grande radio a valvole è sul mobile accanto alla parete, di fronte al tavolo da pranzo. È su una tovaglietta bianca merlettata, a impreziosire il legno entro il quale le valvole brillano discrete, lasciando andare nell’aria un odore vago di incandescenza. Il capofamiglia preme il tasto di accensione e aspetta l’illuminazione dell’occhio magico, quella spia luminosa e iridescente a indicare quando l’apparecchio riscaldato avrebbe iniziato a trasmettere. L’occhio magico si illumina di un verde brillante, disegnando un triangolo e – contemporaneamente – dall’altoparlante le voci di Flo Sandon’s e Natalino Otto: «Mi porterai con te, andremo insiem sul Cucciolo / il motorino è piccolo e batte coi nostri cuor / per monti e per città andremo velocissimi / uniti e felicissimi dove ci porta l’ amor». Si discute, prima di cena: «Che faccia avranno Natalino Otto e Flo Sandon’s?», «Saranno marito e moglie? Solo fidanzati?». E poi: «Magari potersi permettere il motorino Cucciolo, ma i soldi non bastano! È già tanto avere una bella radio in casa, per poter ascoltare notizie, canzoni, opere liriche, la rivista e le commedie sceneggiate! Che belle le commedie sceneggiate! Sembra di essere a teatro, con quelle voci stupende!». La famiglia della ricostruzione sognava così ad alta voce, quando la voce alta della radio dava la notizia per eccellenza di quella fine dell’anno. 27 dicembre 1947, giornale radio delle ore 20. Gli italiani ascoltano queste parole registrate: «Roma. A Palazzo Giustiniani, l’orologio della biblioteca scoccherà tra poco un’ora destinata a rimanere memorabile nella storia della nostra democrazia. A cento anni di distanza l’Italia celebra il ’48 dello Statuto con il ’48 della Costituzione. Sono le ore 17 quando il Presidente della Repubblica prende posto al tavolo della firma. Due calamai, quattro penne da ufficio rievocano la frugalità nella quale sono nate tutte le grandi carte democratiche, a cominciare dalla settecentesca e americana dichiarazione dei diritti. «L’ho letta attentamente. Possiamo firmare con sicura coscienza» ha detto poco prima De Nicola a De Gasperi. L’Avvocato De Nicola è un grande giurista: «Siamo tranquilli anche noi». Tocca ora a Terracini, poi toccherà a De Gasperi. Le quattro penne sono andate a Pacciardi, Saragat, Gonella e a un giornalista senza dubbio dotato di giornalistica prontezza. Da queste cartelle di cuoio la costituzione passa ora nello spirito e nelle forme della vita nazionale. «Noi, tutti gli italiani, giuriamo di osservarla». Parola della radio di quella sera di dicembre, per una notizia letta con uno stile simile se non identico a quello dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), la radio del ventennio chiamata così perché fin troppo ammiccante a quell’Eia eia alalà, saluto fascista. E il giorno dopo, alla stessa ora, altra notizia, riassunta in poche battute. È il 28 dicembre 1947 e gli italiani sanno dalla radio: «Vittorio Emanuele III è morto oggi, ad Alessandria d’Egitto, dove si era ritirato in esilio con il titolo “Conte di Pollenzo”. Aveva abdicato al trono a favore di suo figlio Umberto il 9 maggio del 1946, quasi un mese prima del referendum del 2 giugno che decretò la fine della monarchia nel nostro Paese». Semplice, asciutta, senza commenti, quasi per voltare pagina definitivamente. La storia a volte crea queste coincidenze: Vittorio Emanuele III, il re della guerra, il re del fascismo, il re della fuga da Roma, muore il giorno dopo la firma della Costituzione della Repubblica Italiana, e cento anni prima il suo antenato Carlo Alberto concedeva la prima Costituzione al regno di Piemonte e Sardegna (poi regno d’Italia). Cento anni prima si concedeva: cento anni dopo si respirava la democrazia, c’era voglia di democrazia, la parola dominante era democrazia, anche se per arrivare sarebbe stato necessario pedalare in salita, pur sempre aiutati dal motorino Cucciolo. 1948. Un anno in salita. Costituzione in vigore dal primo gennaio, elezioni il 18 aprile, contrasti tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista (anche se tutti nel segno dell’antifascismo), De Gasperi contro Togliatti e viceversa, soldi pochi, debiti tanti, le famiglie a fare i conti con un’economia inesistente. Anche per questo, all’inizio del 1947, Alcide De Gasperi prende l’aereo per gli Stati Uniti. Dal 5 al 15 gennaio vola di là dell’Atlantico con il ministro per il commercio estero Pietro Campilli, con il direttore generale della Banca d’Italia Donato Menichella, con il capo dell’ufficio cambi Guido Carli, con il segretario generale del ministero degli Esteri Vittorio Zoppi. Vista la composizione della delegazione, non si parlerà di rapporti culturali tra Italia e America, ma si chiederanno soldi, tanti soldi: e arriveranno. Il 7 gennaio il presidente degli Stati Uniti Harry Truman farà consegnare una cinquantina di milioni di dollari come contributo all’Italia durante il periodo di occupazione: come dire, una specie di affitto retroattivo per i suoli occupati durante le seconda parte della guerra.
Blocco a est. Ma non basta: il 14 gennaio la Export-Import Bank concederà all’Italia un prestito di cento milioni di dollari. In quel momento, al governo assieme a De Gasperi e alla Democrazia Cristiana c’erano il Partito Comunista Italiano, il Partito Socialista Italiano e gli Indipendenti. Era attiva la Costituente, presieduta dall’8 febbraio da Umberto Terracini comunista ed era viva la partecipazione alla cosa pubblica da parte di tutti, uniti dai valori della Resistenza. In questo quadro, a marzo del 1947, dall’America arriva un segnale preciso: è il 12 del mese e Harry Truman parla al Congresso degli Stati Uniti. Semplificando dirà: siamo pronti ad aiutare i Paesi del mediterraneo (si riferiva soprattutto a Grecia e a Turchia), ma (c’è sempre un “ma” in questi casi) è opportuno far di conto con la minaccia comunista, alle porte dell’Europa. Non che questa fosse un’invenzione di Truman: basti pensare all’idea di Tito (presidente della Jugoslavia) di non accontentarsi di Trieste, ma di sconfinare beato fino alla pianura padana. E, anche per questo, nasce proprio a marzo di quel 1947 il termine “guerra fredda”, pensato dal politologo americano Walter Lippmann in margine al conflitto USA - URSS, mai dichiarato e combattuto su altri fronti minori, da allora e per quasi quaranta anni. La guerra fredda si riscalderà proprio da quel 1948, ma nasce nei nomi e nei modi qualche mese prima, nel 1947. E se Lippmann, pare, inventi il termine, dagli States arrivano le regole. 14 maggio 1947, Alberto Tarchiani, ambasciatore italiano a Washington è ricevuto dal presidente Truman. De Gasperi si era dimesso il giorno prima, dopo aver manifestato a Pietro Nenni (socialista) e a Palmiro Togliatti (comunista) la necessità di una formula di governo differente, per affrontare con forza la situazione generale italiana alla ricerca della ripresa ben al di là da venire. Truman ripete a Tarchiani quanto aveva detto al Congresso con chiarezza estrema: in sintesi, gli Stati Uniti appoggeranno un governo italiano presieduto da De Gasperi senza i comunisti. E così sarà il 31 maggio: IV ministero De Gasperi con democristiani, liberali, indipendenti. Stop. È polemica forte, sulla stampa, nelle sezioni di partito, tra la gente, in un Paese ancora fortemente diviso, e altrettanto fortemente armato: chiusa la guerra, ma un po’ ovunque si trovavano resti concreti dell’odio. C’era chi aveva tenuto con sé armi e munizioni «perché non si sa mai, con tutti i delinquenti che girano» o «perché la rivoluzione è solo rinviata». Ma, non basta. Nelle campagne, era frequente trovarsi di fronte all’improvviso lo scheletro di un camion da trasporto truppe, un carro armato semidistrutto, se non la carlinga di un aereo abbattuto e incendiato. Fino a qualche anno prima, strumenti di guerra, ora trasformati in giocattoli per bambini: là i ragazzi, figli dei contadini, andavano a giocare. I grandi ricordavano gli eventi, i combattimenti e raccontavano: «Ti ricordi la colonna dei tedeschi? Erano stati attaccati dagli americani… un aereo era caduto, un carro armato era stato colpito… là, nel podere “Vittoria”…». I ragazzi ascoltavano e, incuriositi, andavano a cercare le tracce delle parole dei grandi. Si avventuravano, girando per la campagna: pantaloni corti e – alla cintura – una pistola di legno con fondina originale, questa recuperata in soffitta tra i “ricordi” nascosti di papà. Fra tutti, il più invidiato era Orio: aveva una bustina da aviere, trovata nel fienile assieme ad altri stracci, originariamente appartenuti a una divisa, lasciati là evidentemente da qualcuno con molta fretta di lasciarli. Orio e gli altri andavano spediti alla ricerca di quel mondo di relitti perche nel loro mondo di bambini del dopoguerra mancavano i giocattoli. Per cui era fantastico averne qualcuno in scala naturale. Seguivano i sentieri, arrivavano di fronte a una collina e, quasi di colpo, ecco lo scheletro del camion da trasporto truppe: sembrava lasciato là poco prima e solo apparentemente era fermo e silenzioso. Orio e gli altri si avvicinavano guardinghi, con il terrore malcelato di veder uscire qualcuno all’improvviso, così come all’improvviso quel camion e tutta la colonna si erano presentati sulla strada del podere “Vittoria”, anni prima, seminando terrore fra tutti i contadini della zona. Poi i bambini prendevano misure e confidenza, occupando gli spazi di quel relitto, iniziando a giocare: ovviamente, alla guerra. E, da quel momento per tutti i pomeriggi, il “camion rotto” diventava il punto di partenza dei loro giochi, delle loro esplorazioni del territorio per tentare di recuperare altri giocattoli ancora, dismessi là dai grandi solo qualche anno prima. Già: da piccoli la guerra è gioco o racconto, da grandi con la guerra si combatte e si muore. Le armi giravano ancora a tre anni di distanza dal 1945: e quindi ogni abbozzo di conflitto sociale poteva prendere strade pericolose, dismesse solamente da pochi mesi. Ma sulle strade, per fortuna, camminava il Cucciolo. Arrancava, faticava, starnutiva, sembrava non farcela, ma – alla fine – andava avanti, cantando, «come la canzone della radio». La radio era l’autorevolezza in quegli anni: lo slogan «lo ha detto la radio» andava a sostituire l’ipse dixit aristotelico. Non c’era la televisione e la radio accompagna la vita quotidiana degli italiani, informando e intrattenendo. Il programma nazionale era la Rete azzurra il secondo programma era la Rete rossa: oggi si chiamano Radiouno e Radiodue e hanno mantenuto il colore nel logo. L’Italia del Cucciolo si scopre affascinata dalla ricerca del tempo libero, scandito dall’altoparlante della radio. Al lavoratore, con il cappello ricavato dal foglio di giornale piegato, piace ascoltare la radio, giocare a scopone, fare qualche lavoretto manuale. Sua moglie a casa rigoverna, cucina, gestisce la quotidianità con la radio a tutto volume, andando dietro, con la voce, alla voce dei cantanti. I loro figli, sempre con la radio azzardano anche qualche passo di ballo d’oltreoceano: perché la radio insegna a ballare e a cantare. E in quelle case ricostruite si finisce per addossare sedie e poltrone alle pareti, si arrotola il tappeto, e si comincia a ballare agitandosi e storpiando l’inglese cantato. E si raccontava di una casa il cui padrone aveva un radiogrammofono: enorme, con la radio a tre altoparlanti e uno spazio sotto per i dischi divisi fra loro da lastre di vetro, nonché un armadietto per contenere i liquori, fra i quali il “doppio kummel”! Lì si che si poteva ballare bene, il mambo, ma anche rischiare un lento con lei: bellissima, biondissima, quasi americana, elegantissima con quella sigaretta in bocca. Si balla nelle case, si balla nelle balere, ascoltando la radio diffusa dagli altoparlanti: così come qualche anno prima gli altoparlanti diffondevano altro, via radio. Diventavano familiari i nomi degli interpreti, anche se pronunciati all’italiana. E molti interpreti italiani si facevano chiamare con nomi d’arte, perché – ricostruendo con il cappello di giornale in testa – ci sentivamo piccoli e provinciali.
Le voci pubbliche. Quelle voci di ieri entravano dentro casa e diventavano familiari anche loro: gli annunciatori, che, a secco, annunciavano con garbo i titoli delle canzoni. Così Maria Luisa Boncompagni, Guido Notari, Titta Arista, Adriano Rimoldi e altri: divi anche loro, perché voci di quella radio. Ascoltando la programmazione di quel periodo a cavallo tra 1947 e 1948 si sente il cambiamento del nostro Paese. Con una dizione perfetta Maria Luisa Boncompagni diceva «Gentili ascoltatori, trasmettiamo ora All of me. Canta Frank Sinatra», l’orchestra partiva e si diffondeva the voice nelle case, immaginando la presenza di Frank accanto alla Boncompagni, tutti insieme in un teatro di Roma, pronti a parlare per te, a cantare per te, solo per te all’ascolto di sera, davanti all’altoparlante, in una cucina poco illuminata e con i piatti da rigovernare. «All of me - why not take (come on get) / all of me Can’t you see - I’m no good (just a mess) without you»… Nessuno capiva quell’Americano, ma si batteva il ritmo immaginando di essere là con loro, con Frank e con Maria Luisa. E quando Perry Como cantava Surrender, l’identificazione era pressoché totale. Perry Como, cognome italiano: «Come noi!» si diceva nelle case e quel Surrender diventava immediatamente “Sorrento”, intonato alla maniera di Perry. La fantasia arrivava dove non arrivava la conoscenza diretta e la radio aiutava tutto questo. Chi ascoltava la radio immaginava e dava un volto a quelle voci. Le inseriva in ambienti, le vedeva muoversi, ballare, magari ammiccare, interpretando così una sfumatura della voce cantata: così ci si sentiva coinvolti direttamente, senza sospettare nemmeno per un attimo la realtà di una annunciatrice in uno studio piccolo piccolo, e di un disco messo su un piatto di un giradischi. Quelle voci in arrivo non si sapeva come né da dove lasciavano sognare visi angelicati, innamorandosi di loro solo ed esclusivamente ascoltando il suono delle parole. Quando poi in onda parlava una attrice o un attore del cinema o, comunque, quella voce aveva una fisionomia, tutto diventava più semplice e ancora più fantastico. «Fai silenzio! Sta per cantare Doris Day!» tuonava il capofamiglia coinvolto dall’annuncio di Titta Arista. «E chi sarà mai ’sta Doris Dei!?», sibilava la moglie più che vagamente ingelosita. «È Doris Day, mamma. Una cantante americana… è bionda… è bellissima!», indicando la foto sul Radiocorriere. «Ma è quella del film Amore sotto coperta!», stupiva la moglie nonché mamma. E Doris diventava denominatore comune dei sogni di tutta la famiglia: lei sognava di assomigliarle, dando corpo contemporaneamente al sogno di suo marito e di suo figlio, tutti e due innamorati di Doris Day, ma anche di Rosemary Clooney (la zia di George), di Kim Novak, tutte più o meno biondissime, tutte certamente bellissime. E così, anche la donna italiana sognava. Sì, anche lei aveva diritto al sogno, così come aveva acquisito il diritto di votare proprio in quel 1948. Poteva votare, come le donne americane. Loro, le italiane, così diverse, con quei capelli neri e i vestitini a fiori a mezze maniche. Molte di quelle donne non hanno ancora trenta anni e ne dimostrano quasi il doppio. E vedono in quelle bionde d’oltreoceano l’ideale sognato dai loro uomini.
Il mondo delle canzonette. Le bionde americane, a Roma, gettano un soldino nella fontana di Trevi, sperando di tornarvi prima o poi. E le donne di Roma, vedono e vivono sulla loro pelle la contraddizione: vorrebbero essere bionde e vivere negli Stati Uniti e venire a Roma di tanto in tanto. Invece le aspetta il ritorno al mercato, i conti della spesa che non tornano, i mariti fuori casa che non tornano come i conti della spesa, e quel loro vestitino liso a fiori: uno dei pochi colori vivi, in quell’Italia da ricostruire. In quel 1947, 1948 canta Hauk Williams, Move it on Over, citando il rock, ricanta Perry Como, Prisoners of Love, canta ancora Frank Sinatra, Autumn in New York e tutti ci si diverte con l’America dei neri, anzi dei “negri” incuranti del razzismo largamente strisciante in quella Civilisation, di The Andrews Sisters & Danny Kaye, tratta dal musical Angel in the wings. Detta così, può significare poco. Ma ascoltata nella sua versione italiana è fin troppo eloquente: il titolo è Bongo, bongo, bongo. Devilli ne traduce il testo dall’americano e a cantarla insieme sono Luciano Benevene, Nilla Pizzi e, in seguito, anche il Duo Fasano. Ecco l’introduzione: «Un giorno un grande esplorator / là nell’equator / intorno radunate le tribù / e poi gli disse così /soli soli che ci fate qua / molto meglio è la città / seguitemi su / ma il vecchio negro disse allor». Sette versi a premessa di una storia. Sette versi nei quali si manifesta con chiarezza il relitto della cultura coloniale di qualche anno prima: il vecchio esploratore va in una tribù e chiede ai negri (con la “g”), cosa state a fare ancora qui, all’Equatore, nel mondo primitivo, fra i primitivi, quando potreste venire in città? E la risposta del vecchio negro (sempre con la “g”) arriva immediata a esaltare il mito del buon selvaggio. Eccola, nel ritornello: «Oh bongo bongo bongo / stare bene solo al Congo / non mi muovo no no / bingo bango bengo / molte scuse ma non vengo / io rimango qui / no bono scarpe strette saponette / treni e tassì / ma con questa sveglia al collo / star bene qui». Indimenticabile. In quel 1948 ci si divertiva a canticchiare questo motivo orecchiabile, trasmesso alla radio. E se, oggi, l’introduzione sfugge, il ritornello è proverbiale e altrettanto noto. Il negro (sempre e chiaramente con la “g”) non si muove dal Congo: non vuole le scarpe strette, né le saponette e vuol restare inchiodato al suo posto, affezionato alle sue radici, e alla sua cara sveglia portata rigorosamente al collo. È l’immagine dell’Africa nera cui portare la civiltà dell’occidente: Civilisation, appunto. Ma il vecchio esploratore insiste e magnifica le attrazioni del mondo civile: musica, arte, bellezze varie: «Ma sempre il grande esplorator / ad ognun parlò / dei quadri futuristi dello swing / la nostra moda spiegò / soli soli che ci fate qui / io vi porterò a Paris / seguitemi su / ma il vecchio negro disse ancor: Oh bongo bongo bongo / stare bene solo al Congo / non mi muovo no no / bingo bango bengo / molte scuse ma non vengo / io rimango qui / no bono radio e cine signorine / magre così / molto meglio anello al naso / ma stare qui». Irriducibile negro, non sai cosa perdi. Benché archiviato formalmente e sostanzialmente il regime del ventennio, benché si parlasse di democrazia, benché, benché, benché… L’immagine africana vista da noi in quel 1948 era quella dei fumetti colonial-propagandisti degli anni Trenta: negri, con il gonnellino a perizoma e, per concludere il ritratto, sveglia al collo e anello al naso. Il 1948 della canzonetta racconta molto, perché se da una parte si ascolta americano mitizzandone i contenuti, dall’altra piovono stramberie, se la canzone parla italiano. La radio è accesa, di sera e, come sempre, l’annunciatore introduce discreto, in un italiano perfetto. «Di Carosone Notorius, vogliate ora ascoltare Cocoricò. Canta Nilla Pizzi», e i commenti si sprecavano: sulla voce, su che faccia avesse, sulla rivalità con le altre cantanti dell’epoca, prima fra tutti, Carla Boni. Dopodiché, il silenzio e guai a parlare durante la canzone.
Aspettando Marshall. Altro annuncio: «Il Trio Lescano canterà per voi Il re del Portogallo, di Rizza e Panzeri», e i nomi diventavano famosi, anche quelli degli autori, ripetuti per contratto. Poi, la canzone regina di quell’anno: attesa, cantata, ricantata, allegra, perché marcetta militare e, come tale, apprezzata. I maligni vi vedevano qualche doppio senso, ma chissà perché: «Signore e signori all’ascolto, è ora la volta de I pompieri di Viggiù, di Fragna e Larici. Canta Clara Jaione». E Clara Jaione intonava: «Per volere del visconte, su parere del barone / han fondato la sezione dei pompieri di Viggiù / pompa qua, pompa là, pompa su e pompa giù / Poi a spese del marchese han comprato le divise / con feluche larghe e tese e i pennacchi rossi e blu / pompa qua, pompa là, pompa su e pompa giù / indi a scopo addestrativo il paese hanno incendiato / il reparto si è schierato e ha gridato: “hip, hip urrà”». Come introduzione non c’è male: a monarchia caduta, sono visconti, baroni e marchesi a occuparsi del servizio pubblico e a organizzare i soccorsi a Viggiù, «ridente località in provincia di Varese» (come direbbero le guide). Non solo: ma per addestrarsi bene, si dà fuoco al paese intero, per poi poter intervenire. È singolare, molto: nell’anno della Costituzione, scherzando, si immagina un corpo dello Stato, messo su da forze reazionarie, pronto a fare il contrario del proprio dovere. Il tutto inframmezzato da quel «pompa qua, pompa là, pompa su e pompa giù», in base al quale quei maligni di prima vedevano sensi doppi: ma chissà perché? Chissà perché si rideva ascoltando alla radio questo ritornello, nei bar della provincia, sui ponteggi dei cantieri, durante il pasto di mezzogiorno degli operai a base di pane e frittata con fiasco di vino. Chissà. E chissà perché i parroci e le signore della parrocchia si mostravano seccati se qualcuno intonava: «Viva qua, viva là, viva su e viva giù / Viva i pompieri di Viggiù / che quando passano i cuori infiammano / viva i pennacchi rossi e blu / viva le pompe dei pompieri di Viggiù». Sì, tutto questo si ascoltava alla radio, ma in quel 1948 l’Italia guardava all’America. Il mito americano nelle immagini cinematografiche chiarissime: gessato nero, camicia bianca, cravatta scura, scarpe lucide, brillantina nei capelli, riga a destra e, immancabile sulle labbra, la sigaretta. In quegli anni dall’America – infatti – sta arrivando tutto: musica, miti, automobili, dischi, scatolette, mode, film e pistole, brillantina, hamburger e marmellata, spie, e – non ultimi – aiuti economici. Ogni ragazzo sogna a stelle e strisce. E così assieme a musica, miti, automobili, dischi, scatolette, mode, film e pistole, brillantina, hamburger e marmellata, spie e aiuti economici, dall’America arriva anche il Piano Marshall.