Ottavio Rossani, Sette 28/12/2012, 28 dicembre 2012
LA MIA AMBIZIONE? CAMBIARE IL MONDO [A 84
anni, il poeta milanese autore del dantesco Viaggio nella presenza del tempo accusa la politica di non possedere più valori come altruismo e rispetto] –
La dittatura dell’ignoranza è una «dinamica sudditanza diffusa, inalata quasi senza avvedersene minuto dopo minuto, una sorta di aria dell’aria confusamente composta da comunicazioni di massa, sfrenato bombardamento pubblicitario, istituzione permanente della spettacolarità, progressiva sostituzione del linguaggio con le immagini, sottovalutazione del pensare o ragionare, dipendenza da stereotipi, scollamento dalle ricerche della cultura e dell’arte, dominio del denaro e del potere, netta benché spesso mascherata divisione tra chi ha, e quindi è, e chi non ha, e quindi non è». Queste parole le ha scritte Giancarlo Majorino, milanese, 84 anni, uno dei maggiori poeti italiani viventi, presidente della Casa della Poesia di Milano. Majorino è soprattutto l’autore più ardimentoso degli ultimi 50 anni: a cominciare dal poema d’esordio Capitale del nord (Schwarz, 1959) in cui racconta degli incroci esistenziali nella metropoli milanese del dopoguerra, delle rivendicazioni operaie, della borghesia illuminata e no, delle povere serate sfavillanti di giovinezza. Un libro che ha fatto storia, ma che ancora oggi si legge per freschezza, invenzioni linguistiche e ritmo incalzante. La stessa vigoria si trova in Viaggio nella presenza del tempo (Oscar Mondadori), ponderoso poema del 2008. Due anni dopo Majorino pubblica il piccolo ma essenziale pamphlet La dittatura dell’ignoranza (Tropea) in cui mette a nudo la sua visione della realtà contemporanea, soggiogata dal denaro e dal potere, dall’incosciente dipendenza da televisione, spettacolo dei consumi. Una società soffocata da una «sudditanza diffusa, inalata senza quasi avvedersene». Majorino stigmatizza questa obnubilazione collettiva ed esalta i pregi di chi esce dalla massa e si inventa una vita originale, magari alternativa al cosiddetto “pensiero unico”. A 84 anni si alza e si esalta la mattina verso le sei, quando sorge il sole e dalla sua grande finestra vede la luce («dalla mia astronave») e comincia una giornata di lavoro, di idee, di sentimenti. Ancora insegna estetica e scrittura alla Naba di Milano, la Nuova accademia di belle arti. Scrive poesie e prose, come ha fatto in tutta la lunga vita («ho un’età da paura!»), tra serietà e ironia, tra passioni e desideri.
Il nostro incontro avviene nella sua casa nel quartiere milanese del Giambellino, un appartamento in cui le stanze sono senza porte: si attraversano e si arriva nello studio astronave con la scrivania sommersa da libri e riviste, un comò coperto da libri, un altro mobile in cui i volumi sono uno sull’altro («una specie di cimitero. Ora rileggo solo classici antichi e moderni»).
Mi riceve sulla porta d’ingresso, alto, con le spalle leggermente ricurve, capelli imbiancati, camicia e pantaloni morbidi, il viso scavato da rughe che lungi dall’invecchiarlo indicano una vitalità che non vuole desistere dal gusto di viversi («il mio “godi-godi”»). Mi guida verso lo studio e ci accomodiamo. Ha in mano una copia del suo ultimo poema Viaggio nella presenza del tempo, 425 pagine senza gli indici. Ha ricevuto già 70 recensioni, ma anche studi e saggi più approfonditi. Apre il libro e vedo che è tutto annotato a matita: annotazioni da cui ha preso vita, con la collaborazione di Barbara Pietroni, Viaggio nel viaggio (La Vita Felice), la guida al poema appena arrivata nelle librerie.
Majorino ha impiegato più di 40 anni a scriverlo, sorta di autobiografia, ma non cronachistica, ricca di invenzioni formali, tante storie con 40 personaggi, sette sosia. Il poema è diviso in quattro parti, 21 libri e 131 canti, più l’ultima parte che s’intitola Paradiso nervoso in 74 pagine. Imponente. Importante. Dantesco. E non si può che partire da qui con l’intervista.
Majorino, il suo poema, con la parte finale dal titolo Paradiso nervoso, richiama Dante. Dica la verità, pensava di scrivere un lavoro simile a quello del Sommo Poeta?
«Non posso dire di non aver coltivato l’ambizione di lasciare un libro importante, che affronta tutte le situazioni della vita, costruito con l’uso di tutte le forme della poesia, della prosa poetica e di quella tout court, con le rime, le assonanze, le allegorie, le metafore. E dentro tutto questo storie e storie, come le ho vissute e come le ho visionate. Ma non posso paragonarmi a Dante, sarei presuntuoso. Tuttavia una cosa ci accomuna: aver vissuto dentro le cose e gli avvenimenti. Quindi nella vita. Non ci accomuna la biografia e nemmeno la creatività. Dante è irraggiungibile. Chi pensa di poter reggere un simile confronto è solo velleitario. Oltretutto lui è stato esule, io sono sempre vissuto a Milano. Ma non ho avuto grandi problemi. Ho solo dovuto per un po’ essere sfollato per evitare le bombe durante la Seconda Guerra Mondiale. Il mio poema, come spiega il titolo, è un viaggio nella realtà, nei problemi, nelle ambizioni, nelle attese, e nel tempo, nella vita, e al centro di tutto ciò ci sono le persone, gli altri».
Qual è il filo conduttore di questo viaggio?
«Volevo dare un’idea del tutto. In una sola poesia non si riesce a fare, ci vuole il dispiegarsi del romanzo ma con l’effettività della poesia. Una visione totale che corrisponde al tutto della mia vita. Per un terzo il poema è in prosa, molta parte in versi lunghi, narrativi, ma sempre dentro una complessità che è la complessità della vita. Comincia con le parole di Hegel: “da tale buia unità”, eccetera, il cui senso è che senza il tutto non si conosce nulla. La partenza è dal Sessantotto, cortei, aspirazioni di cambiamento, e il poema era già presente e mi chiamava. Un mio verso dice: “occhi acutati, e già gridava il poema: ti voglio qui!”. Situazioni vitali, spirali di cambiamento, che restituiscono un “tutto”. E il tempo è presente. Il tempo è essenziale. Noi esistiamo con il tempo, ma il tempo si muove in modo autonomo. Io non dico che ho 84 anni, dico che ho 46 milioni di minuti. E l’Enrica (la moglie, ndr) ogni 7 aprile, giorno del mio compleanno, fa i conti e aggiorna il dato su un foglietto che porto sempre nel portafoglio».
Perché questa “ossessione” del tempo?
«Non è un’ossessione. Il tempo non è uno scherzo. Per quanto mi riguarda penso ai minuti che sto vivendo, come se fossero gli ultimi. Da qui discende che per me sono preziosi e me li devo gustare pienamente. La vita è qui, ora, e non si può rimandare alcunché. Sono stato sempre curioso, ho sempre avuto la smania di imparare, di conoscere, di capire. Conoscere è il modo di vivere più intensamente».
Quindi ha cominciato a scrivere il grande poema della vita già negli anni Sessanta. Come?
«Avevo già pubblicato Capitale del nord, che ha avuto subito un grande riscontro di lettori e critica. Abitavo in via Melloni, zona centralissima. Anzi, abitavamo, perché avevo già conosciuto l’Enrica, un giorno al mare, nel 1950. Poi ci siamo rivisti a Milano e abbiamo deciso di vivere insieme. Lei aveva, e ha ancora, un entusiasmo simile al mio. Siamo entrati in una sintonia, che continua ancora oggi. Lei sa molto delle cose che scrivo, ma non tutto. C’è un cassetto in cui lascio le cose, che sono tante. Perché io ho pubblicato molto, ma ho scritto ancora di più. C’è un mondo di inediti. Amo avere incontri con le persone: il rapporto con le cose passa attraverso gli altri. Se non c’è questo contatto con i “singoli di molti” (un’autocitazione di Majorino, ndr), la vita si riduce a solitudine e inutilità».
Mi racconti come viveva da giovane.
«Ho passato tutti gli anni Cinquanta e una parte dei Sessanta come precario, si direbbe oggi. Ho fatto tanti mestieri. Avevo il gusto dell’avventura, della scoperta, passavo da un’attività all’altra mentre studiavo per la laurea in Giurisprudenza. Ho fatto molti lavori in modo anche spregiudicato. Volevo evitare il servizio militare, ma non ce l’ho fatta. Sono stato di volta in volta bookmaker, rappresentante, giocatore di carte professionista. Una volta sono entrato in un tavolo di bridge per ricchi e ho perso una cifra notevole che non avevo. Con candore (o incoscienza), ho dichiarato a quei signori che non potevo pagare. Meno male che loro non vivevano con il gioco, ma potevano permetterselo come svago. Mi dissero che se volevo giocare per vincere dovevo vivere come loro sulle navi. Ho lasciato perdere. Sono nato nel 1928, avevo 18 anni nel 1946, e c’erano molte occasioni. Il lavoro lo perdevi ma subito lo ritrovavi. Bastava avere voglia di fare e si trovava una soluzione. Subito dopo laureato, mi sono impiegato in uno studio legale, poi sono stato assunto in banca e vi sono rimasto per cinque anni. Nel 1968 ho lasciato la banca e ho cominciato a insegnare al liceo Einstein. Nel frattempo avevo pubblicato Capitale del nord, poi Notte secondaria. Ho avuto la fortuna di entrare nel giro dell’astronomo Luciano Amodio, che tra l’altro aveva fondato la rivista Il corpo. E tra i suoi amici c’erano Elio Pagliarani, l’autore de La ragazza Carla, poema della realtà operaia milanese, fondamentale in quegli anni del dopoguerra, e lo psicanalista Elvio Fachinelli, fondatore della rivista L’erba voglio. Sono diventati miei amici. Poi ho conosciuto poeti, scrittori e artisti. Quelli sono stati anni difficili, ma stimolanti. Ma il lavoro non mancava. Tutto il Paese era proteso alla ricostruzione, a produrre, a esportare, e a riempire il mercato interno. Il più grande successo della Fiat è stato allora la Cinquecento, che la maggior parte compravano a rate. Nelle case sono entrati il televisore, la lavatrice e la lavastoviglie, elettrodomestici che hanno segnato la liberazione delle donne prima ancora che esplodessero le rivendicazioni femministe. Questi accenni storici, solo per far capire che c’era intraprendenza, desiderio di conoscere, di scoprire cose nuove, voglia di allegria. Ma la scrittura era la cosa che m’interessava più di tutto. Il primo libro me lo sono pagato io, il secondo l’ho pubblicato nello Specchio di Mondadori. Nel 1977 ho pubblicato l’antologia Poesie e realtà (Savelli), poesia di altri, legata a quel che accadeva. La stessa antologia, aggiornata e aumentata fino al 2000, è stata ripubblicata dall’editore Tropea. E soprattutto quando è morta mia madre ho sofferto molto e questo dolore ha avuto contraccolpi esistenziali. Da quel dolore è nato Equilibrio in pezzi (1965)».
Quando ha scoperto la sua passione per la scrittura?
«Già a quattordici anni collaboravo con mia madre a inventare storie, lei scriveva romanzi sentimentali, per esempio Quella sciocca ragazza, oppure La sposa bella nella casa nuova oppure Tu povero amore e tanti altri. E si vendevano bene, in fondo ci ha mantenuto con quel lavoro. Si firmava con il suo nome ma anche con pseudonimi, come per esempio uno ungherese, Jeno Heltai. Allora andavano di moda gli scrittori ungheresi, anche perché piacevano al regime fascista. Io e mio fratello stavamo sempre lì accanto a mia madre, un ambiente familiare culturalmente stimolante, anche se un po’ folle. Spesso ero io che portavo i racconti o le puntate del romanzo alle riviste. Ed ero io a ritirare i compensi una volta al mese. Pagavano puntualmente, e quando tornavo a casa c’era la spartizione: di più a mia madre, poi a me, e un po’ meno a mio fratello Giorgio, diventato poi psichiatra, e a mio padre. E tutti andavamo a spenderli subito. Ogni fine mese “scialapopolo” alla Fiera di Senigallia».
Mi racconti del suo grande amore: sua moglie Enrica.
«L’ho conosciuta a Pegli, al mare. Lei era sulla spiaggia, ho visto il suo bel profilo da lontano e mi sono avvicinato per conoscerla. Poi ci siamo rivisti a Milano. Lei sapeva ballare benissimo e anche io. Avevo imparato con le truppe americane. Avevo un amico che suonava il sassofono. Lo accompagnavo quando si esibiva con la sua band davanti ai soldati americani che ballavano, io entravo con una tromba che mi prestava il mio amico, come facessi parte del gruppo musicale. Quando ero dentro mentre loro suonavano io ballavo, con gli americani ho imparato il boogie woogie e gli altri balli. L’ho già detto, mi piaceva e mi piace godermela. Enrica Villain, cognome francese, il mio grande amore. Siamo insieme da 62 anni. È la Beatrice Nera del poema Viaggio nella presenza del tempo. Volevo che lo firmasse anche lei, perché lei ha partecipato alla nascita dell’opera con osservazioni e suggerimenti, ed è protagonista importante. Ma lei ha risposto “Sei pazzo!”, e allora nella nota finale ho messo il suo nome e ho scritto: “consideratela fluttuante entro ogni pagina”».
Parliamo dell’insegnamento. Perché continua a insegnare?
«Ho lasciato la banca per insegnare, certo non per i soldi. Insegnare significa studiare sempre, aggiornarsi, riflettere, elaborare un progetto di fronte a giovani in formazione, quindi diventa un’ulteriore assunzione di responsabilità. Insegnare mi piace. Regalo ciò che ho imparato. E ho anche una speranza: che le mie parole servano a migliorare le persone che mi ascoltano».
I suoi libri di poesia, nel complesso, la qualificano come “poeta civile”. È d’accordo?
«Se poesia civile significa poesia che entra nel rapporto tra progetto e realtà, tra sogno e condizione sociale, in altre parole tra pensiero e realtà, allora sì. Spesso mi chiedono come la penso politicamente. Rispondo che i politici avrebbero bisogno di aiutanti per arrivare a capire i problemi pratici della popolazione. I consiglieri giusti possono essere solo persone che “sanno”, che “ragionano”, che “osservano”. Politicamente mi sono sempre collocato a sinistra. Ma questo è semplicistico. I miei valori fondamentali sono l’altruismo, la solidarietà, il rispetto, la cultura. Nei politici sono valori che scarseggiano. Nel libro Prossimamente ho messo un’epigrafe fondamentale: “La vita di ciascuno quale base di tutto”. Ecco, ciascuno di noi ha il diritto di essere considerato importante per la comunità».
Qual è il simbolo più importante che ha dovuto scegliere per spiegare ciò che le interessava?
«La Gorgona. Appare nella copertina del poema Viaggio nella presenza del tempo. La scelta è stata determinata da molti motivi. Il Diarista nel poema incontra una ragazza con la quale sta bene, ma presto si rende conto che la ragazza è anche altro, praticamente sono due donne in una, come appunto la Gorgona, emblema di un orrore soprattutto in se stessa. Ma potrebbe cambiare. La foto di copertina è la riproduzione del quadro di Fontana Testa di Medusa che si trova in un albergo della Galleria. E questa è solo una delle storie amorose del poema».
Cosa vede nel mondo d’oggi?
«Tristezza, pessimismo, amarezza, e anche disperazione. Viviamo un’epoca brutta, in cui la persona sembra non essere più al centro dell’interesse umano. Pensi al terremoto. Parlavo in un liceo quando tutti abbiamo sentito la grande scossa. Il terremoto è intervenuto, con le scosse iniziali e le altre di assestamento, su problemi enormi già esistenti, provocandone altri ancora più gravi. Sulla natura c’è scarso aggiornamento sia nella scuola sia nella quotidianità di tutti. Le mie opere hanno questa ambizione: di incidere nel cambiamento delle cose. E invece siamo in un regime: “dinamica sudditanza diffusa”. La gente viene oppiata e non se ne accorge. È necessario restare vigili, accrescere la conoscenza per essere veramente liberi».
Torniamo alla poesia. Spesso è incomprensibile. Davanti all’oscurità, i lettori scappano. Cosa ne pensa?
«Può non esserlo, però alcune volte deve esserlo. In ogni caso la poesia richiede l’impegno di chi la legge e anche di chi l’ascolta. Il poeta ha un suo “personale”. Ma la poesia ha qualcosa in più: il linguaggio. Le parole possono essere trasgressive, eversive, costruttive. La poesia può influire sui processi di cambiamento, perché è conoscenza e la conoscenza è vita. La poesia non è politica. Il poeta deve essere libero (e lo è), perché non vive facendo il poeta»