Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 28 Venerdì calendario

Dove cadono le bombe – L’ossessione del mondo è una catena legata sulla carta geografica. Iran, Siria, Libano, Israele-Palestina, Egitto

Dove cadono le bombe – L’ossessione del mondo è una catena legata sulla carta geografica. Iran, Siria, Libano, Israele-Palestina, Egitto. Paesi confinanti e condannati a un indissolubile destino, come se fossero vasi (troppo) comunicanti attraversati da un liquido infiammabile capace di incendiare la regione non a caso più turbolenta del mondo: il Medioriente. Sotto la cenere di una tregua apparente alla fine degli anni Dieci, covava una primavera araba portatrice di un pallido sole e di troppi temporali, mentre l’immobilismo nel sempiterno conflitto israelo-palestinese era la quiete prima della tempesta. Il 2012 ha presentato un primo conto con la guerra civile di Siria, gli otto giorni di Gaza, la rivoluzione tradita d’Egitto. E il 2013 può essere l’Anno Zero di un nuovo riequilibrio che nell’area, per vocazione, non avviene mai in modo pacifico. Tantopiù se, accanto alla fatale questione irrisolta di uno Stato per i palestinesi, si affianca il potente ed esplosivo dualismo, tutto interno al mondo islamico, tra sciiti e sunniti. Con un protagonista inedito, piccolo ma ricchissimo, come il Qatar. Nella matassa ingarbugliata di interessi contrapposti e alleanze variabili, il nodo cruciale è, al solito, lo Stato ebraico. ISRAELE Il 22 gennaio si vota e Bibi Netanyahu, secondo tutti i sondaggi, dovrebbe riconfermarsi premier alla guida di una coalizione fortemente condizionata dall’estrema destra. La sua riottosità a sedersi a un tavolo con i palestinesi, conseguenza della sua politica di conservazione dello status quo, ha prodotto un isolamento internazionale come mai nei 65 anni di storia della nazione. Sono noti i pessimi rapporti anche personali con Barack Obama, diversi importanti Paesi europei (tra cui l’Italia) hanno appoggiato la candidatura all’Onu come Paese osservatore della Palestina. La risposta è stato il via libera alla costruzione di 5 mila nuove case nelle colonie e il congelamento del trasferimento delle tasse palestinesi nelle casse di Ramallah. Tanto che persino il moderatissimo premier Salam Fayyad, sempre alle prese con problemi di bilancio, ha proposto un’«intifada finanziaria» col boicottaggio dei prodotti israeliani. La reazione tanto impopolare del governo di Gerusalemme è frutto (anche) della paura. Israele si sente insicuro. La guerra di Gaza ha dimostrato che il suo sistema di difesa "Iron Dome" è efficace, non onnipotente. Qualche missile può sfuggire. E Hamas, attraverso il confine oggi più permeabile con l’Egitto, si è già dotato di almeno 20 mila ordigni. Sommati ai 40 mila negli arsenali di Hezbollah nel sud del Libano, fanno 60 mila in grado di colpire dovunque. Alle minacce più prossime si aggiunge quella della bomba iraniana in costruzione e che sarebbe nelle mani di una casta politico-religiosa intenzionata a cancellare lo Stato degli ebrei. Netanyahu è sempre stato orientato a un blitz preventivo cui sono contrari i militari, dubbiosi sull’efficacia, e per il quale non avrebbe al suo fianco l’America. La finestra di opportunità prima che Teheran abbia ultimato il programma nucleare, si sta chiudendo. Guerra o non guerra? Sarà il dilemma del 2013, chiunque sarà il premier. Non bastasse, sull’uscio di casa c’è la guerra civile siriana che già annuncia vincitori ostili. Non che Bashar Assad fosse un amico, ma gli erano state prese le misure e in atto c’era un patto non scritto di non belligeranza. PALESTINA Israele ha una soverchiante superiorità militare, ma le armi non possono tutto. L’effetto indiretto più clamoroso della rivoluzione egiziana è la riapertura del confine di Gaza. La Striscia non è più ermeticamente chiusa con qualche vantaggio per la popolazione civile e un enorme vantaggio per i gruppi armati, Hamas, Jihad islamica, Comitati di resistenza popolare. Dai tunnel passa di tutto, senza contare che il Sinai è diventato una terra di nessuno in mano a beduini, contrabbandieri, terroristi. Hamas, poi, è una filiazione della Fratellanza musulmana ora al governo in Egitto e, grazie a questa sponda, ha potuto allacciare rapporti anche ufficiali con diversi Paesi tra cui il munifico finanziatore Qatar. Un successo diplomatico che imbarazza il presidente laico di Fatah Abu Mazen, il quale era stato ridotto, in Cisgiordania, come si dice beffardamente, a essere il "sindaco di Ramallah". È stato rilanciato dal successo dell’ iniziativa all’Onu, ma la sua credibilità si giocherà se e quando si riapriranno i negoziati diretti con Israele per una pace sempre vagheggiata ma mai apparsa così lontana. Soprattutto di unità avrebbero bisogno i palestinesi: quella ancora manca. SIRIA «Il conflitto in Siria è diventato un confronto tra etnie, tra alauiti e sunniti, con le altre minoranze etniche costrette a prendere le armi per difendersi, e molti combattenti che vengono da altri Paesi». È la conclusione, peraltro scontata, della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite. Assad capeggia la fazione alauita ultraminoritaria, ma che governa da oltre 40 anni. Controlla gli alti gradi di un esercito ex potente. Per questo ha resistito quasi due anni. Ma il suo tempo volge al termine, in capo a un conflitto che già conta (stime ufficiose) quasi 50 mila morti di cui la metà civili. I ribelli sono alle porte di Damasco, hanno ottenuto il riconoscimento internazionale pur senza la fornitura di armi. Gli americani soprattutto non ne vogliono sapere. Temono finiscano nelle mani sbagliate. Nella variegata coalizione che si oppone al regime un posto importante lo occupa Jabhat al Nusra, secondo il Dipartimento di Stato un nome di facciata di Al Qaeda che infatti ha inserito il gruppo nella lista delle formazioni terroristiche. I suoi uomini sono reduci dell’Iraq dove hanno combattuto gli americani. Un loro comandante (ucciso in battaglia) era il cognato del famigerato Abu Mussab al Zarqawi. Raccoglie soldati di diverse nazionalità, pachistani, libici, sauditi, tunisini. Una internazionale del Jihad. Sono impresentabili persino per coloro al cui fianco si sono schierati, ma indispensabili. I più efficaci nella battaglia, i più decisi. Hanno introdotto con successo la tecnica, già usata felicemente altrove, delle autobomba. Se lo scopo per tutti è cacciare Assad, l’orizzonte successivo è molto diverso. Jabhat al Nusra vuole costruire uno Stato islamico fondamentalista (alle porte di Israele). Nel caos che segue la caduta di ogni regime potrebbe impossessarsi dei depositi di armi chimiche e batteriologiche di cui la Siria, come è noto, dispone. Uno scenario che toglie il sonno in tutte le cancellerie. EGITTO La pace fredda con Israele è diventata pace di ghiaccio da quando i Fratelli musulmani del presidente Mohamed Morsi hanno vinto le elezioni. Nel programma politico dei più radicali di loro c’era la denuncia del trattato di Camp David. Sinora non è successo e anzi Morsi si è fatto garante, in questo, della continuità con Mubarak. Il sospetto è che sia però solo una posizione tattica. Lo obbligano gli americani che foraggiano cospicuamente la casta militare. Ma i sentimenti dei suoi elettori sono diversi. E se gli equilibri internazionali gli suggeriscono prudenza, dietro di sé ha sempre l’ombra ingombrante della guida spirituale dei Fratelli, Mohamed el Badie, ispiratore, tra l’altro, della Costituzione tanto osteggiata dai ragazzi di piazza Tahrir. Il problema, per quei ragazzi e non solo, è che se Morsi è il male, i salafiti, arrivati secondi alle elezioni, sono il peggio. E soffia sulle loro posizioni Ayman Al Zawahiri, leader di Al Qaeda dopo l’uccisione di Osama bin Laden, non a caso egiziano. IRAN Nel 2013 non si vota solo in Israele. A giugno ci saranno le presidenziali in Iran. Lascia la scena il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Potrebbe sostituirlo un candidato più vicino alla linea della guida spirituale, l’ayatollah fortemente conservatore Ali Khamenei che già controlla la maggioranza parlamentare. Il Paese si sta insomma avviando verso una chiusura ancora più ostinata e con poche speranze che possa rinascere l’"Onda verde", progenitrice sfortunata di tutte le altre primavere. Se poco muterà all’interno, la bomba atomica di prossima fattura è il tema che riguarda tutta la regione. Israele può ritardarne con un attacco la costruzione. Non di più. E Teheran già oggi dispone di missili a lunga gittata per colpire Tel Aviv in una eventuale guerra. Le probabilità che scoppi aumentano con l’approssimarsi dell’obiettivo nucleare. QATAR Gli anni Dieci sono stati segnati in Medioriente dall’influenza sciita di cui Teheran è il faro. Grazie all’intervento americano, gli sciiti sono diventati fondamentali in Iraq, hanno stretto legami solidi con gli alauiti siriani, minacciano Iasraele non solo grazie ai correligionari di Hezbollah in Libano ma anche attraverso Hamas, sunnita, però sinora finanziata da Teheran. Si assiste, ora, al risveglio sunnita, grazie soprattutto al denaro dell’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani. Noi lo conosciamo, soprattutto, per lo shopping forsennato in Occidente di squadre di calcio, case di moda, palazzi prestigiosi. Il lusso non gli basta: vuole contare. È stato a Gaza e ha promesso soldi ad Hamas per ricondurlo nell’alveo sunnita, finanzia (anche con armi secondo le intelligence) i ribelli siriani per rovesciare Assad e portare al potere la Fratellanza musulmana (sunnita). Ha promesso dieci miliardi di dollari di investimenti all’Egitto confessionale. Ha già esteso i suoi interessi nella Libia del post-Gheddafi. A Doha ha ospitato figure imbarazzanti come il predicatore Yusuf al-Qaradawi. E possiede Al Jazeera. Il suo scopo politico è propagandare il wahabismo, dottrina sunnita sulla quale l’Arabia Saudita (con cui ha ristabilito proficui rapporti) ha fondato la propria legittimità politica. Se l’Iran sciita avesse la bomba, i sunniti si sentirebbero minacciati e ne vorrebbero una propria. La proliferazione dell’atomica. Nel Medioriente che è tutto un arsenale, mancherebbe solo questo.