Marco Damilano, l’Espresso 28/12/2012, 28 dicembre 2012
Bussola per orientarsi nel 2013 – Terza Repubblica, anno zero, bipolarismo addio. Per vent’anni ci siamo abituati al pensiero bipolare: o di qua o di là, destra o sinistra, liberali o democratici e, soprattutto, berlusconiani o anti-berlusconiani
Bussola per orientarsi nel 2013 – Terza Repubblica, anno zero, bipolarismo addio. Per vent’anni ci siamo abituati al pensiero bipolare: o di qua o di là, destra o sinistra, liberali o democratici e, soprattutto, berlusconiani o anti-berlusconiani. E dunque: con Niccolò Ghedini o con Ilda Boccassini, con Bruno Vespa o con Michele Santoro, con Iva Zanicchi o con Serena Dandini. Nella Seconda Repubblica si ballava in coppia, nella Terza si danzerà la quadriglia. Nel 2013 si sfideranno quattro schieramenti. Quattro come le stagioni, i semi delle carte, i lati del quadrato, i cavalieri dell’Apocalisse. E i punti cardinali: ecco la bussola per non perdere l’orientamento. Nord. La Sinistra di Bersani. I Progressisti: Pier Luigi Bersani la chiama così la sua coalizione, e pazienza se ricorda drammaticamente il simbolo con cui nel 1994 la gioiosa (e sfortunata) macchina da guerra messa su da Achille Occhetto si presentò nei collegi uninominali, l’uomo di Bettola non è superstizioso. Sotto questa bandiera correranno il Pd, mai così compatto attorno alla leadership del suo segretario nonostante lo scontro con Matteo Renzi alle primarie, Sel di Nichi Vendola e il piccolo Psi di Riccardo Nencini. Due ex iscritti al Pci e l’erede del glorioso partito di Turati, Nenni e Pertini: alla guida del governo per la prima volta si candida la Sinistra, senza neppure i cespugli moderati che di solito facevano da contorno al partito maggiore (da Dini a Mastella). A rappresentare l’ala centrista ci sarà solo la lista affidata a Bruno Tabacci, ex candidato delle primarie. Bersani è il primo post-comunista che può aspirare a diventare premier trascinato da un voto popolare (Massimo D’Alema arrivò a Palazzo Chigi con una manovra parlamentare, Walter Veltroni nel 2008 aveva scarse possibilità di spuntarla contro Berlusconi). Il suo Pd corre con un profilo old left, la versione italiana della socialdemocrazia tedesca e della gauche francese, Hollande e Mélenchon insieme, con l’ambizione di spostare a sinistra l’asse delle politiche europee: più crescita, più lavoro, più equità, meno austerity alla Merkel. La presenza di Mario Monti in campagna elettorale costringe il candidato premier del Pd a uscire dal generico: l’agenda Bersani, per ora, presenta le pagine in bianco. Il pericolo per i riformisti del partito è che prendano il sopravvento le posizioni più radicali, alla Vendola, come ha avvertito D’Alema, o che il Pd si presenti alle elezioni come un gigantesco braccio politico della Cgil. Un fronte della rassicurazione più che del cambiamento, «il partito della nobile conservazione», come lo ha definito Michele Salvati, specie se gli Elefanti, i dirigenti più anziani, dovessero continuare a contare sulle scelte decisive. Il candidato premier venuto dalla via Emilia si ritrova in una posizione di vantaggio mai avuta dai predecessori: nei sondaggi il partito sta tra il 30 e il 35 per cento, percentuali al massimo storico per la sinistra, ma gli avversari si sono squagliati. Ed è il Pd il Nord del sistema politico, la stella polare su cui si posizioneranno le caselle decisive, da Palazzo Chigi al Quirinale. Attenzione, avverte l’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi, in uscita dal Parlamento e tornato nei panni dell’analista, «rischiamo di passare dal bipolarismo fallimentare di questi anni al monopartitismo imperfetto». Il Pd partito solo al comando e per questo tentato dal vizio antico dell’egemonia. Premessa certa di future subalternità. Est. Centro di Monti. Lo schieramento elettorale che si riconosce in Mario Monti è la novità della campagna elettorale, il levante, lo stato nascente, l’oriente della politica italiana. Il sorgere di quel partito di centro che in tutta Europa è alternativo alla sinistra socialdemocratica: qualcosa che non è mai esistito nell’Italia della Dc interclassista che rifiutava sdegnosamente l’etichetta di partito conservatore e poi nel Paese del Cavaliere di Arcore che per vent’anni ha cavalcato rivolte fiscali, rabbia contro lo Stato, pulsioni contro la politica, sentimenti e risentimenti pochissimo moderati. Per raggiungere l’obiettivo il premier è disposto a far pesare il suo nome, il suo operato, la sua immagine internazionale. Il burocrate senza volto ci mette la faccia. Il tecnico impersonale getta nella mischia il suo corpo. Il super partes si fa parte. Il governo dei senza partito si trasforma nel partito del governo. L’élite cerca un popolo. E chiede di essere votato contro la destra berlusconiana e contro la sinistra vendoliana, in attesa di vedere se dopo le elezioni si potrà stringere un patto tra gentiluomini con Bersani. Se l’operazione riesce, comunque vada, si potrà finalmente dichiarare conclusa l’anomalia berlusconiana, con il voto degli italiani e non con un colpo di Palazzo, dopo una battaglia a viso aperto per la conquista del consenso elettorale e non solo in virtù delle benedizioni interne e internazionali. Per esempio quelle del Vaticano e della Casa Bianca, gli attori che intervengono nei momenti di transizione, come accadde nel dopoguerra quando puntarono su Alcide De Gasperi, deputato del Parlamento absburgico, alieno e straniero alle liturgie mediterranee almeno quanto Monti. Se va male, resteranno un pugno di parlamentari, i soliti centristi di Pier Ferdinando Casini, qualche seguace di Gianfranco Fini, i nuovi arrivati di Luca Cordero di Montezemolo, Andrea Riccardi, qualche potente ministro in carica come Corrado Passera si dovrà rassegnare a trascorrere un radioso quinquennio da peone di Transatlantico. Il rischio è infilarsi nella palude del piccolo cabotaggio. In fondo, levante confina con levantino. E Monti l’europeo, allievo dei gesuiti, ha già dimostrato di non essere secondo a nessuno quanto ai bizantinismi. Ovest. Destra di Berlusconi. Cavaliere in fase ponente, declinante, in lotta per frenare il tramonto. Gagliardo, determinato, combattivo, deciso a presidiare qualunque pulpito televisivo o radiofonico per risalire nei sondaggi. Amici e avversari, uniti almeno in questo, riconoscono che in campagna elettorale Berlusconi dà il meglio di sé, con l’occupazione militare di ogni spazio mediatico e con relative rimonte, ma il vero capolavoro berlusconiano è stata sempre la costruzione della coalizione vincente. Tenere insieme un’alleanza con la Lega al Nord e con Alleanza nazionale al Sud, nonostante l’odio dichiarato tra Umberto Bossi e Gianfranco Fini nel 1994. Recuperare il Senatur e stabilire un patto con l’establishment imprenditoriale e finanziario nel 2001, quando alla Farnesina, sia pure per pochi mesi, salì Renato Ruggiero con l’imprimatur dell’Avvocato. Mettere su in poche settimane il Pdl nel 2008, per rispondere alla sfida del Pd di Veltroni, e chiudere l’asse con il Carroccio. Per quasi vent’anni il Cavaliere è stato il gran federatore dell’Italia anti-sinistra. Ora, invece, con lui non vuole allearsi più nessuno o quasi. Lo squadrone del Pdl si frammenta tra gli anti-montiani di Ignazio La Russa, Giorgia Meloni, Guido Crosetto e i filo-montiani di Franco Frattini e del ciellino Mario Mauro. E l’apparizione sulla scena di un centro ben più agguerrito di quello Martinazzoli-Segni che fu spazzato via nel ’94 spinge Berlusconi su posizioni sempre più estremiste, nello spazio che nel resto d’Europa occupa Le Pen (Marine, però, perché il vecchio padre è da tempo in pensione): anti-euro, anti-tedesche, a spendere tutte le promesse, anche le più contraddittorie, dall’eliminazione dell’Imu all’abbattimento della pressione fiscale, quasi un catalogo di tutto ciò che non è stato fatto quando il Cavaliere governava. Traballa la Lega, si federa La Russa, restano fedeli le Amazzoni, il resto si stringe attorno all’ex giovane promessa Angelino Alfano tra lo spavento e la speranza che il Cavaliere abbia ancora una volta ragione. L’ultima. Sud. Gli Anti di Grillo. Per mesi, dalla amministrative di Parma vinte a maggio alle elezioni regionali siciliane di ottobre, il Movimento di Beppe Grillo ha fatto tremare i capipartito. Poi, tra le scomuniche dell’ex comico contro i dissidenti interni (con una certa insistenza contro le donne, in linea con la generale misoginia dei politici italiani) e il recupero degli altri partiti (l’effetto primarie, il ritorno di Silvio, l’endorsement di Monti), le cinque stelle hanno smesso di brillare e i sondaggi che quotavano i grillini verso il 20 per cento ora li danno in calo, poco più su del 10. Eppure il 2013 sarà il loro anno: l’ingresso in Parlamento della tribù grillina, con decine di deputati e senatori, rappresenta un passaggio paragonabile a quando a Montecitorio e Palazzo Madama sbarcarono i radicali di Pannella e i padani di Bossi. Potenzialmente eversivi per le abitudini degli inquilini del Palazzo, quanto si vedrà. Movimenti anti-partiti come quello di Grillo esistono in Germania (i Pirati, anche loro in calo) e nei Paesi scandinavi, rappresentano un voto giovanile che la politica tradizionale non sa più intercettare. Il caso italiano è diverso perché altrove sono formazioni collettive mentre qui tutto ruota attorno alla figura del Capo e del suo guru Gianroberto Casaleggio: più caudilli latino-americani che modernizzatori nordici, in grado però di dare voce alla rivolta anti-politica alimentata da scandali, riforme mancate, assessori a sbafo. Al movimento grillino potrebbe affiancarsi il partito degli Arancioni, a forte trazione meridionale: il pm siciliano Antonio Ingroia, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e quello di Palermo Leoluca Orlando, il molisano Antonio Di Pietro. La rivolta che viene dal Sud.