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 2012  dicembre 27 Giovedì calendario

Il principe narratore dei misteri dell’anima - Per fare letteratura non è indispensabile scri­vere «alto», scrivere poco, scrivere grandi epopee o sotto ispirazione

Il principe narratore dei misteri dell’anima - Per fare letteratura non è indispensabile scri­vere «alto», scrivere poco, scrivere grandi epopee o sotto ispirazione. Il gran lombardo-ucraino Gior­gio Scerbanenco, senza vere giustificazioni critico-filologi­che confinato a lungo dentro i recinti della narrativa di gene­re, sfumata nei diversi colori «rosa», «giallo», «giallo-nero», «nerissimo», si è dimostrato semmai uno scrittore vero, sen­za aggettivi, un maestro assolu­to del racconto breve e un gigan­te nel narrare le piccolezze umane.Nonostante già Leonar­do Vergani illo tempore l’avesse battezzato «Cechov dei Navi­gli », la nostra editoria lo ha in fondo sempre considerato un minore di successo, invece che un gigante sottovalutato. Tag­gato con le parole chiave «gialli­sta », «Milano nera», «padre del noir italiano», «una macchina per fare storie», «consolatore di piccole Bovary di provincia», Scerbanenco fu invece un rac­contatore di assoluto talento, un geniale artigiano della pen­na. Apparentemente un autore di genere, in realtà completa­mente sui generis . Ucraino di nascita e milanese di rinascita, che non si fece ana­grafic­amente adottare dalla cit­tà ma semmai fu lui ad adottar­la narrativamente, disegnando per lei un’inedita topografia let­teraria, Scerbanenco non cre­deva affatto all’ispirazione («Si scrive quando si scrive», dice­va, cioè sempre per lui), aveva una capacità affabulatoria fuo­ri dagli schemi (a chi si stupiva dei ritmi e della vastità della sua produzione, tra racconti, ro­manzi a puntate, rubriche e pez­zi giornalistici, spiegava che per lui il problema non era farsi venire in mente delle nuove sto­rie, semmai scacciarne qualcu­na delle troppe che affollavano la sua testa), ed era dotato di una scrittura felicissima e di una personalità altrettanto complessa: basti pensare a tutti gli pseudonimi adottati e alla di­sinvoltura con la quale passava da una storia gialla a una di gan­gster a una sentimentale a una di guerra a una di fantascienza, e persino western. Un tipo strano, questo allampa­nato tuttofare, ri­gido ma sensibi­le. Come ricorda la figlia Cecilia «assomigliava al suo Duca Lam­berti, un pizzico meno di aggressi­vità e un pizzico in più di dolcez­za ». Identici inve­ce per la capacità di cogliere la psi­cologia delle per­sone nelle situa­zioni difficili e l’anima di una so­cietà nei momen­ti di crisi. Cioè le qualità che gli hanno permesso di mettere a nudo, senza scomo­dare Checov, e neppure Balzac o Simenon, una città resa vio­lenta dall’incubo del denaro e del benessere facile (la Milano del boom e calibro 9 degli anni Cinquanta e Sessanta di tanti suoi racconti) piuttosto che un Paese silenziosamente sull’or­lo della catastrofe (l’Italia degli ultimi anni di guerra e di regi­me, affamata, bombardata e censurata, ritratta ad esempio nelle storie scritte tra la fine del 1941 e l’agosto del ’43 per il Cor­riere della sera ). Osservatore distaccato e nar­ratore compassionevole dei do­lori umani, il «milanese di Kiev» Giorgio Scerbanenco è un raffi­natissimo scrittore pulp. Una fu­cina letteraria nel senso più no­bile e popolare del termine, tal­me­nte nobile da essere diventa­to un classico e talmente popola­re da rimanere di genere.