Michael Kinsey, D, la Repubblica 22/12/2012, 22 dicembre 2012
TINA BROWN IL FUTURO È WEB E ROSA
Quando nel novembre 2010 Tina Brown prese la direzione di Newsweek, acquistato da Sidney Harman in comproprietà con Barry Diller, tutti fecero lo stesso commento: se qualcuno riuscirà a rimetterlo in piedi, quel qualcuno sarà lei, e nessun altro. La previsione si è rivelata corretta, ma nonostante tutto qualche settimana fa Newsweek ha annunciato la cessazione della pubblicazione su carta.
Com’è successo, Tina?
La previsione era corretta. Credo fosse una scommessa romantica la sopravvivenza di Newsweek, e in effetti per il Daily Beast, il nostro sito dal nome bizzarro che allora si fuse con Newsweek, avere anche una piattaforma editoriale era una gran cosa. Ma la cultura del momento non era favorevole, per non parlare del fatto che avevamo una struttura da risanare e sfide che avrebbero richiesto cinque anni di lavoro in un’economia in crescita.
Che cosa aveva in mente di fare?
Sono sempre stata innamorata dei newsmagazine europei, quel genere di rivista tipo lo Spiegel, che ha un approccio alle notizie energico, semplice, intelligente. Ma sono riviste che hanno bisogno di molte pagine. Da editore e da giornalista ho una sensazione di delusione incredibile, quando una rivista si presenta senza pubblicità. Le pagine non dovrebbero essere una di seguito all’altra, c’è bisogno della pubblicità per avere corpo e consistenza. Il settimanale sembrava misero, e questa sensazione ha influito sul modo di leggerlo. Quello era uno dei grossi problemi.
E gli altri?
Dunque, vediamo. Se mi guardo indietro penso che accettare la direzione di Newsweek sembrasse completamente folle. Uno dei soci è morto ancor prima che mi insediassi. Poi sono arrivata mentre quasi tutti gli anziani dello staff se ne andavano. Questa è stata la grande differenza col New Yorker. Lì avevo trovato un’ottima e intelligente redazione.
Con persone che non avrebbe potuto mandar via neppure volendo.
È stata una sfida diversa. Ma a Newsweek, quando sono arrivata non c’erano né un caporedattore esecutivo, né un caporedattore attualità, né un corrispondente a Washington, né un ufficio centrale... Non c’era veramente nessuno. Avevamo redattori fantastici e giovani autori, ma senza una struttura dirigente, e non si sapeva chi se ne stava andando e chi restava. Dovevamo in qualche modo inserirci nel già stressatissimo staff del Daily Beast, e cercare di mettere insieme le due culture. Intanto scoppiava la primavera araba, uno dei momenti più cruciali degli ultimi cinque anni dal punto di vista dell’informazione.
Stavate veramente perdendo 40 milioni di dollari l’anno?
Non posso rivelare le cifre esatte, ma posso dire che solo stampare Newsweek costava 42 milioni di dollari. Ancor prima di assumere uno scrittore, o un redattore o un photo editor. 42 milioni di dollari.
Sembra la prova che i giornali dovrebbero essere tutti online. Quelli erano i fatti. Ci siamo messi al lavoro in primavera e tutto suggeriva che non sarebbero cambiati. Non si aveva l’impressione che fosse una crisi temporanea della pubblicità.
Era quello che speravo io quando nel ’95 ho varato il magazine online Slate. Ma non era vero.
Lei ha previsto giusto. Fin troppo.
C’è voluto un po’, ma di solito queste cose impiegano tempo a succedere.
Newsweek nei giorni migliori aveva corrispondenti in tutto il mondo.
Trenta uffici. Sa, è buffo, quando ho visto i documenti della vendita, erano come le vestigia di un galeone. Come il relitto del titanic nel film di Cameron, gente che nuota nei saloni, e in alto si vedono i candelieri. Improvvisamente realizzi che c’era un’epoca in cui le sale da pranzo avevano candelieri.
Già.
Quando Kay Graham (editrice del Washington Post e proprietaria dal ’61 di Newsweek, ndr) è arrivata da forestiera in città, era un po’ come se fosse arrivato il Dipartimento di Stato, tutto l’ufficio di Newsweek era lì ad accoglierla. E ottenne subito per lei un’intervista con Ferdinand Marcos.
A Newsweek Graham aveva uno chef personale. Se lei non era in città, ne approfittava (’allora direttore Bill Broyles.
Lo so.
Quanto di tutto questo è inutile?
È del tutto inutile.
Però faceva molto Newsweek.
Assolutamente sì. Era grandioso.
Ora non potrete più fare cose simili.
No, non potremo. Ma Newsweek ha ancora un buon potenziale di utenti e di influenza. Se va in Brasile o in India, abbiamo un’enorme impatto. Riusciamo a ottenere interviste con chiunque, oltreoceano, solo per il fatto di essere parte di Newsweek. E credo che abbiamo fatto un ottimo magazine. Ma è come avere un frigorifero attaccato a ciascun piede, questo carapace della rivista stampata con tutti i grattacapi e i problemi irrisolti. Quando ce ne saremo liberati potremo focalizzarci sul contenuto. Personalmente lo trovo liberatorio. E credo sia così per gran parte della redazione.
L’idea è mettere Newsweek on line a pagamento?
Stiamo valutando attentamente la modalità di accesso. Pensiamo di far pagare ogni quattro o cinque articoli letti. Ci avete mai pensato, per Slate?
No. Ci siamo detti: interessante. Ma poi non l’abbiamo fatto. E non l’ha fatto neppure il suo Daily Beast...
Il Daily Beast va forte. A ottobre abbiamo avuto 19milioni e 800mila utenti unici. Ci eravamo prefissi l’obiettivo di 15 milioni entro la fine dell’anno e l’abbiamo già ampiamente superato.
Quanti milioni fa Arianna Huffington?
Guardi, ultimamente non ho controllato. Sono troppo entusiasta dei miei 19 milioni e 800mila.
Davvero non legge l’Huffington Post?
Lo leggo, lo leggo.
E cosa ne pensa?
Penso che abbia un gran bel materiale, e anche materiale non altrettanto valido. Ma il sito è molto cliccato.
Pensa che Arianna se lo aspettasse?
Credo che prima di tutto abbia capito cosa fare, il che è intelligente.
Cioè?
Credo che abbia capito come creare velocemente una comunità. E come fare in modo che tutti ci stessero senza voler nulla in cambio, probabilmente la cosa più intelligente di tutte. Arianna è straordinaria. Siamo amiche da quando lei era a Cambridge e io Oxford. Abbiamo avuto qualche fidanzato in comune.
Chi?
Mio dio, non voglio condividere quest’informazione con lei!
Va bene. Allora, come ha fatto ad arrivare a quota 19milioni e 800 mila?
La cosa grandiosa di The Beast è che ora è una comunità unita, tutte persone molto intelligenti, eclettiche. Gli ultimi quattro anni li ho passati ad assemblare tutti questi talenti E li facciamo crescere. Ciò che mi piace di The Beast è che qualsiasi notizia rilevante attiva inevitabilmente tutta un’altra serie di talenti. È come una specie di tsunami, quando accade devi velocemente trovare altri autori. Che poi restano.
Che differenza c’è con la carta stampata?
Si lavora molto, ma è meno stressante. Tutti i limiti della stampa ora sembrano incredibilmente obsoleti, la necessità che i testi avessero una certa forma, un certo mix, che dovessero essere pronti per un certo giorno. Tutto questo ora sembra così tremendamente impegnativo.
Ora alle dieci e mezza di sera ti chiamano e ti dicono di tagliare tre righe.
Tutto qua.
Poi mezz’ora dopo ti chiedono di aggiungerne due.
Proprio così. E devi modificare leggermente il pezzo perché è accaduto quel fatto.
Mi dica cosa legge lei ogni giorno.
Vuol conoscere la mia cheta mediatica? È molto eclettica, come può immaginare. Prima leggo il New York Times e il Wall Street Journal. Un po’ di Washington Post. E mi piace il Guardian. Per la robaccia guardo il Daily Mail Online, che è fantastico. Ha la migliore porcheria che interessa al genere umano. Cose come "vostro figlio si beccherà la sindrome da deficit di attenzione se mangia il risotto allo zafferano". Irresistibile. Poi vado a pranzo al Sutton Cafe con mio marito Harry, ci sediamo e leggiamo i giornali.
Vuol dire i giornali stampati?
Sì, anche se Harry, gran lettore, ha iniziato a portarsi dietro l’Ipad, segno del cambio delle abitudini. Io amo ancora leggere i giornali mentre bevo il caffè. Poi torno in ufficio e comincio a surfare su internet: Huffington Post, Politico qualche volta Buzzfeed.
Tra 10 anni avremo ancora giornali cartacei?
"No" è la mia risposta breve, a meno di non stamparli a casa dal web.
Sopravviveranno aziende come Time Warner, News Corp, New York Times?
È molto difficile, per i colossi, muoversi agilmente in un’era di novità sconvolgenti. Gli elefanti non sanno ballare il tip tap. Con Facebook e Google si possono costruire velocemente nuovi imperi. Dubito molto che la maggior parte dei maggiori marchi sarà ancora dominante a metà del secolo.
E di Time cosa mi dice?
Credo che sia destinato a diventare parte di una grandissima società insieme a tutte le altre testate. Ha People e Sport Illustrated. Un ombrello così protettivo che avrà una vita più lunga. Ma temo che tra due o tre anni rivedremo la stessa storia. Ci saranno ancora le riviste, ma molte decideranno che tra i costi di base, il fatto che molti inserzionisti vogliono stare sul digitale e le abitudini di lettura, la stampa non avrà più senso.
Da quando negli anni 80 ha rilanciato Vanity Fair, a ragione o a torto la si associa alla cultura delle celebrity. Se ne sente responsabile?
In primo luogo non l’ho creata io. Un buon magazine è lo specchio del suo tempo. Io non ho fatto altro che individuare la cultura delle celebrità e invitare ad approfondirla sulle nostre pagine. L’idea vincente di Vanity Fair è stata trattare le star del cinema come intellettuali e gli intellettuali come star del cinema (e se ti dà una mano una fotografa come Annie Leibovitz, la cosa è più facile). Ma a differenza di prima, oggi i vip che contano sono più interessati a ciò che possono fare con la loro fama, piuttosto che ad apparire sui giornali.
Immaginiamo di fare un processo a Tina Brown. Io leggerò l’atto d’accusa, lei parlerà a sua difesa.
D’accordo.
A Tina Brown piace solo il gossip. Non le interessano le cose serie.
Credo che nessuno che abbia lavorato con me lo possa sostenere. Tanto per cominciare la gente pensa che il pettegolezzo sia qualcosa che si ottiene corrompendo con delle bustarelle. Cosa del tutto errata. Gossip è pubblicare qualcosa che genera una conversazione, che genera un dibattito vivace, altrimenti perché pubblicarlo? Pensi ai talenti che ho raccolto intorno a me, quelli coi quali ho lavorato e che ho scovato io. Pensi con chi ho lavorato: David Remnick, Larry Wright, Malcom Gladwell, Jane Mayer e Jeffrey Toobin. Non sono scrittori frivoli.
Okay. I giornali di Tina, nonostante tutto il battage pubblicitario, non hanno mai guadagnato molto. Almeno se non consideriamo quello che ha guadagnato lei.
È una menzogna. Ho lasciato Vanity Fair con un bell’attivo. Era in perdita di 70 milioni di dollari e io l’ho portato in attivo. Sette o otto milioni di dollari quando me ne sono andata. E come sa, è la cosa più difficile.
A me non è mai successo.
Non solo l’ho lasciato in attivo, ma ho costruito un marchio molto potente. E quando è stata la volta del New Yorker, ho preso in mano un marchio che stava morendo e quando l’ho lasciato, dopo sei anni e mezzo, avevo ridotto le perdite. Quando ne ho assunto la direziono perdeva 22 milioni di dollari, quando me ne sono andata a David Remnick sono bastati quattro anni per andare in attivo. Ho ricostruito quel marchio e creato un valore enorme.
Ok sono a corto di argomenti per l’accusa. Quindi questa non è una critica, solo una constatazione: Tina ha un debole per gli uomini anziani. E gli uomini anziani hanno un debole per Tina. Sente di avere una sintonia particolare con loro?
Certamente ce l’ho con l’uomo anziano col quale sono sposata...
Ma?
Ma quanto vecchi devono essere per chiamarli anziani? Grazie a Dio viviamo tutti così a lungo, quindi ho ancora delle opportunità.
Be’, c’è Harry, certamente, e Sidney Harman (l’editore di Newsweek scomparso l’anno scorso, ndr), Si Newhouse (proprietario di New Yorker e Vanity Fair), Harvey Weinstein (editore di Talk che Tina Brown ha creato e diretto dal ’99 al 2001)...
Non vorrà dire, spero, che ho un debole per le persone per cui lavoro...
Solo che ad esempio Sidney Harman, senza alcuna allusione sessuale, era professionalmente innamorato di lei.
Sono commossa nel sentirlo. Era un tipo meraviglioso e divertente. Avrei voluto conoscerlo meglio, ma non è stato così. L’ho frequentato solo due mesi.
Dopo che Talk ha avuto dei problemi, un articolo su Vogue disse che lei aveva subito una fantastica trasformazione, diventando femminista. Prima non lo era?
Francamente credo di essere diventata più consapevole e più favorevole a sostenere le donne meno fortunate. Quando si invecchia si diventa inevitabilmente più coinvolti socialmente e più consapevoli a livello politico. È capitato anche a me. Ho avviato il progetto "Women in the world Summit", (lanciato da Daily Beast e Newsweek, la terza edizione si è tenuta all’inizio di dicembre a San Paolo in Brasile, ndr) che mi appassiona enormemente. Quasi quasi mi piace di più che lavorare nell’editoria.
Eventi come i Summit sono diventati un ingrediente editoriale importante?
Lo sono per noi. Le nostre "Women in the world" sono diventate molto importanti per noi come parte della nostra società.
A volte non pensa che la gente stia passando la vita ad andare a summit, conferenze, eventi?
Ce ne sono molti. Ma sa cosa significa, per me? Che la gente è affamata di discorsi interessanti.
Lei twitta?
Twitto quando sono obbligata. È abbastanza divertente, ma non trovo che sia un’estensione naturale della mia produzione scritta. Ho sempre avuto la sensazione che twittare sia così auto celebrativo e narcisistico... è come aspettarsi che la gente trovi interessante ciò che diciamo. E in questo sono piuttosto inibita.
E di Facebook cosa mi dice?
No, non lo uso. Non voglio affatto mettermi in contatto con le persone del mio passato. Credo fermamente nella perdita di contatto con le persone conosciute.
In che senso?
È salutare non vedere le persone per tre anni, non sapere cosa fanno, incontrarle per caso e scoprire che gli si sono ingrigiti i capelli, hanno divorziato... Se fossi su Facebook saprei tutte queste cose, invece io non voglio sapere nulla di loro.
Per concludere, parliamo di Tina Brown come cittadina americana, visto che da britannica di nascita l’anno scorso ha preso la nazionalità negli States. È pronta per Hillary presidente nel 2016, o il momento dei Clinton è passato?
La cittadina Tina, grazie per aver toccato l’argomento, sosterrà Hillary in tutta l’America. L’ho vista in azione durante uno degli eventi del nostro "Women of the World Summit", è incredibile, travolgente. Voglio che si prenda due anni di pausa, si faccia un bel taglio di capelli, dia una svecchiata a quei completi antiquati e torni alla grande.
(© 2012 New York Magazine -New York Media LLC-MTC Information Services . Traduzione di Simona Silvestris)