D, la Repubblica 22/12/2012, 22 dicembre 2012
LA VITA DI NADIA OLTRE LE SBARRE
Nadia ha 33 anni, due bambini, capelli lisci e rossi, sguardo accogliente, tratti morbidi, maturità classica presa per accontentare una mamma insegnante che la voleva scrittrice e una laurea in legge, per assecondare un papà che la sognava avvocato.
Ama orecchini improbabili, scarpe eccentriche e smalto azzurro, con cui ogni mattina accompagna all’asilo i suoi figli e, dopo, va a lavorare. In carcere.
«Cominciai durante l’università a fare volontariato: con i bambini, gli adolescenti problematici, i tossicodipendenti. Quando, dopo la pratica forense, fu il momento dell’esame di Stato da avvocato, capii che quella non era la mia strada. Volevo lavorare nel sociale e lo annunciai ai miei genitori».
«Sei matta! Vai a fare la badante, tra drogati ed extracomunitari», le dissero. Poi capirono. O si rassegnarono.
«Sono educatrice in carcere ma non chiedermi cosa vuol dire esattamente. La legge dice che svolgo con i detenuti "una riflessione critica sulle condotte antigiuridiche poste in essere, e aiuto a rimuovere le cause del disadattamento sociale". In pratica ascolto, ascolto e ascolto».
E io, ipnotizzata dalle sue unghie azzurre e dal suo candore lieve e sornione, ascolto Nadia che racconta della sezione femminile dell’istituto dove ha scelto di lavorare, dopo un concorso pubblico. Alle nove del mattino deposita il cellulare all’ingresso con un brivido («E se mi chiama la scuola perché uno dei miei bambini non sta bene?») e varca varie porte.
«Incontro chi seduceva e truffava online vecchi marpioni, chi ha trasportato droga ma ora vuole fare la cuoca, chi non sa convivere con le ferite dell’anima e quindi se ne infligge parecchie sul corpo, chi è stata una madre terribile e cuce bambole bellissime».
Sono incontri frettolosi, perché loro sono tante, troppe, ben più di quelle che dovrebbero essere. Organizza per loro corsi di formazione, le aiuta a trovare casa e lavoro quando escono, stabilisce con loro una relazione di prossimità, «non di madre, non di redentore, non di amica». «Ho chiesto la sezione femminile, perché è la più difficile e perché le donne sono meno numerose e i servizi per loro sono più scarsi».
«Gli uomini in genere fanno male agli altri. Le donne, prima, fanno male a se stesse. Solo dopo, quando la misura è colma, attaccano fuori da sé», spiega Nadia.
Il confronto al femminile, poi, è generalmente più scoperto. «Gli uomini spesso passano dal tentativo di seduzione a quello di filiazione senza soluzione di continuità». Le donne invece solitamente hanno un’ostilità di partenza verso l’educatrice. «Anche se non ti conoscono, ti immaginano madre e moglie felice, sposata in bianco dentro una chiesa fiorita. E vogliono dimostrarti che non sei migliore di loro».
«"Sono una puttana. Cos’altro c’è da dire? lo non ti conosco ma forse conosco molto bene tuo marito", mi disse una donna, il giorno del nostro primo incontro».
Hai l’impressione di aiutarle? «Sono in grado di aiutare solo chi è disposta a farsi aiutare».
Alle 17, Nadia recupera il telefono, sospira di sollievo perché la scuola non l’ha cercata e va a prendere i suoi figli, insieme alle altre madri. Con loro è pronta a condividere l’indignazione per la fettina di tacchino sostituita surrettiziamente con quella di pollo, la preoccupazione per il cambio della maestra del pre-scuola, l’organizzazione della festa di metà anno.
«La mia elasticità qualche volta è messa a dura prova: avrei voglia di urlare alle mamme che non me ne importa niente della ricetta del cupcake perché una ragazzina diciottenne mi ha appena raccontato il primo stupro da parte del patrigno, odio il mondo e voglio solo una stanza buia. Oppure vorrei urlare a qualche detenuta di tagliare corto perché c’è il sole e voglio andare al parco con i miei figli».
Poi le passa. E Nadia ricomincia a camminare sul filo, tra quei due mondi paralleli, chiedendosi quale sia veramente il suo.
«Mi fanno compagnia lo smalto, le scarpe e gli orecchini. E un gran senso di inadeguatezza. Ma quello forse l’avrei avuto comunque».