Dario Cresto-Dina, la Repubblica 27/12/2012, 27 dicembre 2012
I TEMPI DEL CUORE
Domando a Patrizia Valduga se possiede una sua definizione dell’amore e lei mi risponde: «Di mia no, ma ne ho tante di altri». È il suo modo di travestirsi restando semplicemente bella e spaventata. Entusiasta, le riesce di ricordare nei dettagli che cosa indossava in una certa occasione di dieci anni fa: «Evidente! Cappello Louise Brooks e impermeabile con collo di volpe», ma poi spazza subito il cammeo dalla memoria con la cruda quasi crudele realtà dell’oggi, anzi dell’adesso: «Andrò a camminare su corso Buenos Aires, veloce come una mentecatta, per contrastare minimamente l’inevitabile caduta delle chiappe, che dopo quella dei denti e dei capelli ha preso a rattristarmi da qualche tempo, con un piumino corto, pantaloni termici, come osano autodefinirsi ma non è vero, stivali, passamontagna di cotone e cappello anni ’70. L’effetto è sorprendente: ieri in tram una donna mi ha detto che sembro Eleonora di Aquitania. Robb de matt». Dice di lei Stefano Giovanardi presentando la sua opera letteraria nel Meridiano Mondadori dedicato ai poeti italiani del secondo Novecento: «Fin dall’esordio ha puntato tutte le sue carte sul ripristino rigoroso di generi metrici della tradizione, ma si ha l’impressione che una griglia tanto costrittiva, coi suoi rapporti obbligati di rime e di misure sillabiche, funzioni per la poetessa da argine nei confronti di una piena sensuale altrimenti incontrollabile, nella vertigine tutta barocca della contemplazione di Eros attraverso Thanatos e viceversa». Esaurite le prefazioni, siamo qui a raccogliere le parole attorno all’amore e al disamore, con annessi e connessi e il nostro cammino, com’è facile intuire, non potrà che essere erratico.
Torniamo dunque all’inizio: di quali prestiti beneficia per definire l’amore?
«Fame di ignoto, che prendo da Flaubert, oppure esercizio di resurrezione, che prendo da Dmitrij Sergeevi Merezkovskij, che dice “il fine dell’amore sessuale non è la propagazione della vita, ma la resurrezione dei morti”. Consideri però che sono morta da più di otto anni: sono la persona meno adatta a parlare d’amore, non mi ricordo neanche più come si fa».
Mi sta dicendo che non fa l’amore da otto anni o che da otto anni non sa più riconoscere l’amore?
«Le sto dicendo che da otto anni non faccio l’amore che resuscita. Mi è capitato di provare quattro o cinque volte, ma sono stata lasciata più morta di prima».
Lei vive, tuttavia. Le ribalto il pensiero: si può vivere senza amore. È vero che quando lo si ha perduto, intendo l’amore, non si ha più nulla da perdere e si è dunque più sereni e quasi felici?
«Francamente a me pare che vivere senza amore sia una vera schifezza. E la felicità non c’entra niente. La felicità non può durare, è sempre istantanea: se sei sempre felice, ammesso che sia possibile, non ti accorgi più di esserlo».
Lei ha tradotto Shakespeare e, soprattutto, Proust. Esiste una forma d’amore intellettuale che soddisfa anche i sensi?
«Posso citare Raboni? Ha scritto che pensa alla grande letteratura del passato “come a un luogo aperto e polveroso, confuso e cruento, arena o circo o campo di battaglia gremito di presenze inquietanti e fraterne. Anche se molti di loro sono morti cento o trecento o mille anni fa, a noi non tocca venerarli come statue ma amarli come si amano i vivi. Amarli, cioè lottare giorno dopo giorno con loro sapendo che un giorno potrà anche succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più”. È così che amo Proust e Shakespeare, e
Flaubert, come se fossero vivi. Sto leggendo le lettere di Flaubert. Lo so, è il massimo dell’indiscrezione: non sono state scritte a me e io le leggo lo stesso, mi intrufolo nelle sue questioni intime, vengo a sapere dei suoi fastidi fisici, persino di come funzionano le sue viscere. Mi vergogno, ma ne sono perdutamente innamorata in questo momento».
Come si produce in lei l’amore, la disseminazione del male sacro, come scrive appunto il suo adorato Proust?
«Non so in che modo si è prodotto in me l’amore. So che l’ansia ce l’ho dentro da sempre. Oggi direi che è un gran soffio di quiete o, meglio, di benessere che può farmi innamorare. Forse perché mi è sempre più difficile stare davvero bene con qualcuno».
Qualcuno. Abbiamo avuto tutti un qualcuno speciale. Lei ha trascorso più di vent’anni accanto a Giovanni Raboni, fino alla sua morte, nel 2004. Come vi siete innamorati?
«Le rispondo che non rispondo. Abbia pietà. Non può immaginare quanto odio risveglio ogni volta. Comprensibile, del resto: ogni volta che vedo Giosetta Fioroni che parla di Parise, mi dispiaccio per Omaira Rorato. E Parise non l’ho neanche conosciuto».
Mi dica almeno come vi siete incontrati.
«Uffa. Un giorno gli ho telefonato. Gli ho detto che volevo portargli dei sonetti, che non mi fidavo delle poste. Mi ha detto di richiamare la settimana seguente; mi ha dato un appuntamento. Sono partita in automobile da Belluno alle sei del mattino con un amico pellicciaio che doveva andare a
Corsico. A Corsico ho pranzato e ho bevuto del vino. Sono arrivata sotto casa sua piena di paura e allora ho bevuto mezzo whisky. Quando ha aperto la porta mi sono presentata con queste parole: sono un po’ ubriaca e mi scappa da pisciare. Ero vestita come Marlene Dietrich in
Disonorata.
Gli è venuto da ridere. Poi ricordo che stava scrivendo una dedica per me su un suo libro, che mi sono inginocchiata per leggerla mentre la scriveva e che ci siamo baciati. È andata così. Grazie a Dio i sonetti gli sono piaciuti, se no finiva tutto lì».
Chi c’era stato nella sua vita sentimentale prima di lui?
«Molti fidanzati e un marito».
È stato un amore fedele il vostro?
«Credo di sì ma non posso giurarci. Bisogna essere fedeli spontaneamente, non per principio. Il fatto è che io sono solo l’ultima arrivata nella vita sentimentale di Raboni. Ci sono state una prima e una seconda moglie e, tra l’una e l’altra, altre tre donne almeno hanno contato molto per lui, e a tutte quante ha dedicato versi e le ha amate quanto o più di quanto ha amato me. Ogni volta mi sembra di fare quasi torto a loro, mi sembra di mettermi troppo in mostra. Ho parlato troppo di me e Giovanni, è ora che stia zitta, anche perché sono
quella che gli deve di più, che non sarebbe esistita senza di lui. È stato amico, amante, pigmalione e figlio. Sì, tutto questo: perché — l’ho anche scritto — aveva l’infinita saggezza di un vecchio e la notte gli incubi di un bambino. Lui ora è più vivo in me di tutti i vivi che vedo. È l’unica immortalità che ci è concessa: vivere nella mente di qualcuno, fosse anche uno
soltanto dei sette miliardi di vivi».
Lei ha scritto di morte e d’amore. Cominciamo dalla prima, un passaggio da
Requiem,
cronaca della morte di suo padre: “Invece Dio ti ha preso la parola/ e volevi parlarci e non riuscivi/ e sentivi la morte anche alla gola/ e non potevi dirci che morivi”. Dolore e forza.
«È l’ottava, lirica e narrativa al tempo stesso, che ha forza; non io».
La fine di un amore è come un lutto?
«Magari... da “elaborare”. Ma non scherziamo! L’amore finisce perché si cambia e la vita è fatta, come dice Proust, di un perpetuo rinnovarsi delle cellule».
Dal suo
Cento quartine:
“Fa’ presto, immobilizzami le braccia,/ crocefiggimi, inchiodami al tuo letto;/consolami, accarezzami la faccia;/scopami quando meno me l’aspetto”. Ho scelto uno dei passi meno espliciti. Lei ha scritto e scrive molto di sesso. Perché?
«Perché la lingua batte dove il dente duole».
A volte la lingua batte dove il dente vuole. Il sesso fatto bene, raccontato bene, è piacere sublime.
«C’è chi gode a farlo bene e chi gode a farlo male. Tutto dipende dalla struttura psichica, dalla posta che la struttura psichica mette in gioco: se per disgrazia si investe troppo, i conti non tornano mai e si finisce per correre all’infinito dietro all’infinità del desiderio. Se mai c’è stata carne nelle mie poesie, si è fatta subito verbo».
Spesso la voce di una persona è più di metà dell’amore. Quanto amore c’è, invece, nell’amore per le parole?
«Zenone aveva ragione di dire che la voce è il fiore della bellezza. E questo è Montaigne: un poeta vede con le orecchie e gode anche con le orecchie. Novantanove per cento per me».
Immagino che lei stia a distanza di sicurezza da Internet e dalle relazioni digitali.
«Mi sono data un limite: non più di un’ora di Internet al giorno. E ancora mi distraggo, mi perdo... Non mi piacciono i giornali dentro il computer, sono troppo vecchia per appassionarmici. Una volta c’ho cercato un uomo, stavo delle ore a guardare facce, un’ossessione. Mi ha salvata Zanzotto, dicendomi: “No, Patrizia, lì ci sono solo i rimasugli”. Mai andata su Youporn, per me gli uomini sono eccitanti se sono vestiti. No, non fa proprio per me. Ho un motto: musica dal vivo, arte dal vero, persone di persona. Senta invece cosa scrive Flaubert all’amico Louis Bouilhet il 13 marzo 1850, dopo aver passato una notte con la più famosa cortigiana del Cairo, che aveva anche danzato per lui: “Quant aux coups, ils ont été bon. Le troisième surtout a été féroce, et le dernier sentimental”. Non è meraviglioso? Chissà cosa hanno fatto la volta “feroce”, chissà quante sono state le volte. Valgono di più queste due proposizioni di tutte quelle migliaia di pagine di sfumature. Non trova?».
Borges diceva che gli specchi e la copula sono abominevoli perché moltiplicano il numero degli uomini. A una certa età un po’ di misantropia aiuta?
«Magari aiuta chi passa la vita in mezzo agli altri e ne è sazio e deluso, ma io la passo in casa da sola e, se non avessi qualcuno con cui bere un bicchiere di vino la sera, potrei anche buttarmi dalla finestra».
Finora è riuscita a passare davanti alle finestre aperte. Quali ormeggi l’hanno salvata?
«Per me il luogo è il tempo, e il tempo è il cuore. Le radici sono in chi ho amato, amo, amerò».
(d. crestodina@repubblica. it)