Cesare Conti, ilSole24Ore 24/12/2012, 24 dicembre 2012
DERIVATI, NUOVE ISTRUZIONI PER L’USO
I casi di Pisa e Milano dovrebbero contribuire a fare chiarezza su molti aspetti controversi che riguardano l’utilizzo dei prodotti derivati over the counter nelle imprese e negli enti, come per esempio sul significato di "margine implicito", dato per semplicità dalla differenza tra mark to market a mid e valore effettivamente praticato dalla banca alla clientela.
La sola presenza di un margine implicito ha fatto intravedere a molte imprese/enti la possibilità di cancellare tutte le perdite originate dai prodotti derivati in essere, sia già realizzate sia potenziali. Ciò quasi a prescindere dalla natura (più o meno di copertura) dei derivati, nonché da ulteriori valutazioni giuridiche inerenti, per esempio, la trasparenza informativa dimostrata dalle banche.
La scarsa chiarezza sul significato e sull’entità del margine implicito ha inevitabilmente inasprito un clima che nuoce a tutti. Nuoce ai prodotti derivati, ormai percepiti nell’immaginario collettivo come diabolici strumenti da evitare. Nuoce alle banche, che hanno perso credibilità. Nuoce anche alle imprese e agli enti, il cui management, nella migliore delle ipotesi, è passato per incompetente. Urge dunque un punto a capo.
In attesa di conoscere le motivazioni della condanna in primo grado sui derivati del Comune di Milano, un passo importante in questa direzione è stato realizzato mediante la recente sentenza 5962/2012 del Consiglio di Stato, che riguarda la Provincia di Pisa.
Il suo principale elemento di novità risiede nel riconoscimento che il margine implicito non può essere pari a zero. Inoltre viene validato un approccio per verificare la convenienza economica della ristrutturazione dei debiti negli enti ai sensi dell’articolo 41 della legge 448/2001. Secondo tale approccio la verifica è superata quando il valore di mercato del portafoglio ex post, costituito da debito e derivati, è inferiore a quello ex ante, per cui le passività finanziarie dell’ente si riducono.
Entrambe le novità sono tecnicamente condivisibili. Ma è probabilmente il loro combinato disposto a produrre l’effetto più importante, ovvero spostare il dibattito dalla pura esistenza del margine implicito alla sua congruità. E soprattutto, almeno negli enti, ai criteri da seguire per recepire il margine implicito nella valutazione di convenienza economica della ristrutturazione del debito.
Sarebbe però un peccato se i casi scuola di Milano e di Pisa si limitassero a sciogliere alcuni nodi del passato. Sarebbe invece auspicabile l’avvio di un cambiamento di prospettiva, rivolto in avanti. Questo cambiamento è necessario per almeno tre motivi. Innanzitutto perché, nonostante la loro diffusa demonizzazione, i prodotti derivati sono destinati a rimanere uno strumento irrinunciabile per la gestione aziendale dei rischi finanziari (tasso d’interesse, tasso di cambio eccetera). In secondo luogo, perché l’ormai prossimo recepimento della riforma del mercato over the counter (cosiddetta Emir) determinerà una rivoluzione delle competenze necessarie per negoziare i derivati. Basti pensare a quelle indispensabili per valutare i costi di controparte, di funding e di collateralizzazione, i quali incideranno ancora di più sul margine implicito.
Infine, perché i Consigli di amministrazione (e, nelle quotate, i loro Comitati di controllo e di gestione dei rischi) saranno sempre più coinvolti nelle decisioni di copertura dei rischi finanziari, essendo esse sempre più integrate con le decisioni strategiche di investimento e di finanziamento.
Servirebbero, insomma, nuove istruzioni per l’uso dei derivati, volte a rimuovere la fisiologica asimmetria nella dotazione di competenze e di tecnologia che vede contrapposte le banche da un lato e le imprese/enti dall’altro e che ha alimentato i conflitti che conosciamo.
La teoria e la prassi ci insegnano che per ridurre alla radice questi conflitti è opportuno prevedere il sistematico ricorso a figure terze, cioè a financial risk advisor indipendenti. Non a caso questo ricorso è già molto diffuso nel contesto anglosassone, dove ne esistono pochi, grandi e altamente credibili, grazie a forti investimenti tecnologici, a competenze mirate e alla presenza quotidiana sui mercati.
Il ricorso a financial risk advisor indipendenti permette di completare le competenze interne delle aziende con pareri e servizi indipendenti e tecnologicamente avanzati:
1) sull’esposizione ai rischi finanziari e sull’eventuale opportunità di ricorrere ai derivati;
2) sulla congruità del margine implicito praticato dalla banca;
3) sulla valutazione, il reporting e la contabilizzazione dei prodotti derivati già acquisiti.
Il ricorso sistematico a un supporto qualificato e indipendente avrebbe per certo evitato all’origine tutti i problemi connessi all’utilizzo dei derivati, con beneficio dell’intero mercato. Anche per i derivati vale pertanto la regola di buon senso secondo cui «prevenire è meglio che curare».