Gabriele Romagnoli, la Repubblica 24/12/2012, 24 dicembre 2012
L’ARTE DI JOSÉ MALIGNO VINCERE L’IMPOSSIBILE E DISPERDERE NEL VENTO
Come nei più memorabili dopo sbornia, a ogni risveglio nei dopo partita riformuliamo i giudizi sul mondo e chi lo abita. Immobili brocchi che l’hanno messa dentro per caso ridiventano grandi speranze. Faraoni mummificati nell’antica Roma sono degradati a illusioni fuori luogo. Viva Sansone con tutti i Filistei, muoiano i principi senza più regno, da Milito a Boateng. Per una volta ha ragione José Maligno, allenatore del Real Madrid: «Il calcio non ha memoria ».
E allora eccolo lì, seduto su una panchina al Parco del Retiro, circondato da ragazzini imbizzarriti, nonni scandalizzati, fontane che (goccia dopo goccia) stanno traboccando e, soprattutto, macerie. Chi era costui è, ipse dixit, del tutto irrilevante. Conta soltanto chi è: l’allenatore di una squadra a 16 punti dalla rivale, sconfitto (anche) a Malaga dove è triste perfino vincere, perché comunque piove nel corazon. Il 26 aprile scorso dopo l’eliminazione nella semifinale di Champions, José Maligno cadde in ginocchio sul prato. A occhio, non si è più rialzato. Da quel momento ha cominciato a scavare sul fondo. Non inganni la vittoria nella Liga, che era già acquisita. Subito dopo si è impegnato per disperdere al vento ogni ricordo, spazzando via possibilità e patrimoni.
A scontentare un capriccioso come Cristiano Ronaldo, a cui non basta neppure Irina Shayk, non ci voleva molto. Ma per demolire un monumento solido come Casillas occorreva uno slancio anti-istituzionale e anche un fremito di masochismo. C’è del vero nelle parole d’ordine di Mou, ma come sempre quando apre bocca lui, c’è un adattamento della realtà alla sua personale vicenda che crea una iper realtà a suo uso e consumo e ne occulta un’altra in cui la sua figura sbiadisce.
A essere immemore non è il calcio in assoluto. È il suo calcio. Si tratta di un’esperienza unica, non ripetibile né tramandabile. Mou lo sa e si guarda bene dal concedersi un bis, giacché sa che non potrebbe realizzarsi. Affascinanti proprio per questo, le sue creazioni vivono una stagione definita in cui raggiungono tutto il raggiungibile poi muoiono. Quando se ne celebra il funerale lui è già altrove, lontano. Agli astanti non resta la consolazione del ricordo, perché il confronto con il presente è impietoso e fa troppo male, esattamente come voleva José Maligno.
In quest’epoca di tramonto delle ideologie d’Occidente l’ultimo possibile duello tra pensatori forti è quello tra Mou e Guardiola. Sono due scuole opposte e inconciliabili. Uno ha vinto dovunque ma ha lasciato rovine, l’altro l’ha fatto in un solo posto ma l’ha reso un eden, non solo calcistico. L’Inter da triplete dopo Mou era una spremuta di calciatori a cui nessun allenatore avrebbe potuto ridare solidità. Il Barcellona invincibile dopo Guardiola è rimasta una democrazia così perfetta da non aver bisogno di un governo, né da parte
di un tecnico, né da parte di un politico: basta un popolo che fa quello che gli hanno spiegato di fare, usando «testa, cuore e palle». In un attimo di smemorato cinismo tutti abbiamo provato qualche entusiasmo quando l’Armata fu buttata nel fango dal Chelsea brancaleone di Di Matteo, ma poi l’abbiamo rivista ripartire con ammirazione, sotto qualunque condottiero: il secondo di Guardiola, il secondo del secondo e via scalando.
C’è il Museo Guggenheim progettato da Frank Lloyd Wright e il Museo 24 ore di Francesco Vezzoli. Entrambi notevoli, ma l’uno è permanente, l’altro effimero. Il primo è una struttura che valorizza le opere, il secondo un’idea che dà risalto all’autore. Mou si espone nella seconda maniera. Mette in mostra se stesso, il resto è accessorio. Se gli capita un Picasso, gli piazza una cornice di compensato e lo appende nella sala dei naïf emiliani. Nel complesso, come sempre, l’operato del Maligno ha un suo fascino, ma è un polittico a intermittenza, la luce passa da una tela all’altra, lasciando la precedente in una oscurità miserevole.
La grandezza di Mou è sempre stata anche nella scelta di tempo. Con Porto e Inter (dopo aver sbagliato al Chelsea) se ne è andato sul picco, tra gli applausi e le lacrime (anche suoi e sue). Sapeva di aver tutto da perdere rimanendo e ha consegnato un’eredità senza beneficio di inventario che ha poi seguito sghignazzando. Avrebbe dovuto andarsene da Madrid dopo aver battuto Guardiola e il suo Barcellona. Forse ci ha pensato e non trovato una panchina dello stesso livello. Il sabbatico si addice al Pep, ma non a lui, giacché gli insegna Nietzsche «in tempo di pace l’uomo guerriero si accanisce contro se stesso». E ora, nel calcio immemore, sta come un Pellegrini qualunque, solo nel cuor della classifica, trafitto da un raggio di mediocrità. Prima che sia sera ha un’ultima possibilità: battere il Manchester United in Champions, ritorcere Cristiano Ronaldo contro ogni passato e futuro, lasciare nel fango Sir Ferguson e risentirsi un dio poiché domani di quest’oggi né il calcio né altro avranno memoria.