Sebastiano Triulzi, la Repubblica 24/12/2012, 24 dicembre 2012
THOMAS TRANSTROMER “UN ANNO SPECIALE VISSUTO DA NOBEL”
[Il poeta svedese si racconta. La sua formazione di psicologo La passione per gli insetti. La malattia. La musica. La Bibbia] –
STOCCOLMA
La casa di Thomas Tranströmer si trova tra le piccole abitazioni rosse del promontorio di Södermalm, un tempo quartiere operaio di Stoccolma. Gli occhi, liquidi e chiari dello scrittore premio Nobel nel 2011 sono scossi ogni tanto da una risata che sembra provenire dai bronchi: la mano destra è rannicchiata sul petto e le parole escono a fatica, segni non tanto dell’età — compirà ottantadue anni il prossimo aprile — quanto della malattia che l’ha colpito nel 1990. È passato poco più di un anno e il Nobel per la letteratura ha un altro vincitore, Mo Yan: «Sono stati mesi positivi e intensi, nonostante la pressione mediatica a cui non ero abituato» — confessa Tranströmer. «Poi è naturale che il Nobel passi come il testimone di una staffetta, però l’attenzione per la mia poesia è aumentata moltissimo. L’unico rammarico è non aver avuto tempo per tutti».
È tradizione lasciare un oggetto simbolico al Museo del Nobel. Quale ha scelto?
«All’inizio avevo pensato di donare una delle mie pipe ma sono passati venticinque anni da quando ho smesso di fumare, e tutto sommato non mi spiacerebbe farlo di nuovo, almeno una volta. Poi ho optato per uno dei quaderni dell’archivio, uno dei primi, di quando ero giovane. Questa è la fotografia della copertina».
Sono degli scarabei?
«Si, ma non è fatto solo da disegni. Ci sono annotazioni, idee, numeri di telefono, i primi canovacci delle mie liriche. I miei quaderni sono quasi dei diari, in cui la poesia comincia a svilupparsi e ad uscire, però dentro possono esserci anche scarabocchi o pensieri dei miei figli».
Riesce a scrivere ancora?
«Si, ho sempre usato la mano sinistra, l’unica che muovo dopo l’ictus. Il computer o altri supporti tecnologici non mi sono mai serviti. Scrivo sulla carta, fino all’elaborazione finale che invece avviene con la macchina da scrivere. Ovviamente ci sono delle difficoltà ma la forma dei miei versi ora è così breve e compatta che mi basta una mano sola».
C’è chi ha letto la Lugubre gondola come una metafora della sua malattia.
«In realtà la prima elaborazione è precedente. Trascorsi un po’ di tempo a Venezia; è stato uno periodo chiave della mia vita, anche se difficile e complicato. Nella raccolta compaiono dei sogni autentici, non sono rielaborazioni o invenzioni. Il titolo richiama le composizioni per violino e pianoforte che Liszt scrisse per Wagner quand’era ormai sordo e si riferisce al processo doloroso della scrittura. Sono partito dalla musica, suonando al pianoforte queste composizioni, poi ho letto le sue biografie e dopo ho scritto le poesie. Durante la vecchiaia Liszt soffriva parecchio, il viso si era riempito di piaghe causate da una reazione cutanea; nella musica aveva raggiunto una sorta di essenzialità, aveva sfrondato tutto».
Come è riuscito a conciliare l’attività di poeta e quella di psicologo?
«La psicologia ha influenzato la poesia e viceversa. Il mio lavoro di psicologo ha avuto un indirizzo pratico ed è avvenuto all’interno di istituzioni statali, come il
carcere minorile di Roxtuna. L’appartenenza alla scuola freudiana o lo studio di Jung sono passati in secondo piano, interagivo con giovani che avevano problemi di droga e di criminalità aiutandoli ad inserirsi nel mercato del lavoro. L’incontro con queste persone è stato fondamentale, determinando anche i temi delle poesie ».
Nella sua biografia c’è un momento rivelatore, una circostanza particolare che l’ha spinta sulla strada della poesia?
«Probabilmente no, l’avere svolto la professione di psicologo mi ha sempre impedito di sentirmi un poeta o di assumermene il ruolo. Quando ci trasferimmo a Västerås, dovendo indicare il mio lavoro sull’elenco telefonico, dichiarai che ero uno psicologo. Da bambino volevo diventare un esploratore, nella biblioteca comunale dove andavo i libri di geografia erano i miei preferiti».
Il museo di Storia Naturale di Stoccolma dove la portava suo nonno quand’era bambino, ha allestito una mostra sugli insetti che ha raccolto durante l’infanzia. Ne è orgoglioso?
«Si. Sono sempre stato un grande collezionista, per carattere non butto via mai nulla. La collezione risale agli anni Quaranta, era conservata nella casa sull’isola di Runmar dove vado sempre l’estate, la tenevo in un armadio, come un museo segreto. La passione per l’entomologia è nata lì, imparai che la terra è viva e che esiste un mondo infinitamente grande che vive senza preoccuparsi di noi».
In un’intervista ha definito le sue poesie dei luoghi di incontro in cui stabilire un legame inatteso tra parti di realtà.
«C’è sempre una verità che esce e una che entra, l’ispirazione è data dall’incontro di entrambe, ma queste due verità non sono mai comode. E ciò che ha l’apparenza di un confronto svela un legame».
Com’è nata l’idea di collaborare ad una traduzione della Bibbia?
«In Svezia esiste una commissione per gli studi biblici e venni invitato, insieme ad alcuni poeti, a stendere una nuova traduzione. Dovevo interagire con biblisti ed ebraisti, lavorai soprattutto sui Salmi e sebbene la mia traduzione non intendesse modernizzare il testo, ci furono alcune critiche, ma alla fine fu accettata. La parte più piacevole si è rivelata l’attività di gruppo, anche se ho dovuto spesso ricorrere alle mie conoscenze di psicologia quando partecipavo alle riunioni».
Ha avuto un’infanzia particolarmente religiosa?
«Si, ricordo che dicevamo le preghiere della sera; mia madre era molto devota ma non in un modo impositivo. A quattordici anni scelsi di non cresimarmi e per lei era ovvio rispettare la mia volontà. Quel rifiuto ha poi coinciso con un percorso di ricerca personale continuato per tutta la vita senza grandi rivoluzioni interiori. Non significa che non abbia mai trovato un’idea di fede».
Fu sua madre a spingerla verso il pianoforte?
«Quando avevo sette anni mi fece prendere delle lezioni, abbandonai presto. A quindici anni vissi una crisi profonda, vedevo buio invece della luce. Sentivo una angoscia che mi divorava, soprattutto quando sopraggiungeva la notte ed ebbi paura di scivolare nella pazzia. Il mio esorcismo fu la musica, il pianoforte divenne un modo per liberarmi dalla malattia. Per due anni andai da un compositore, suonare mi riusciva bene, avevo una predisposizione naturale».
Suona ancora?
«Dopo la malattia ho scoperto la musica
per mano sinistra e questo mi ha aiutato moltissimo. Bach è stato il mio più grande amore, lo suono anche ora con una mano sola; alcuni sostengono che Schubert sia stato più importante, non è così, in generale il linguaggio della musica ha influenzato la mia poesia. Musica e poesia hanno in comune il fatto di rappresentare uno spazio di tempo, con un inizio e una fine; tra le due arti c’è una tale sinergia che non si possono isolare o staccare facilmente, semplicemente coincidono ».
C’è un episodio di quest’anno che ricorda volentieri?
«Qualche mese fa sono stato invitato in una scuola di Rinkeby, quartiere di migranti e rifugiati politici. I bambini avevano allestito uno spettacolo dedicato alle mie poesie, e uno di loro, commentando i versi di
Allegro, mi ha detto: “capisco cosa provi quando suoni perché mi sento esattamente così quando gioco a calcio”. Ho pensato che fosse la migliore interpretazione che si potesse dare al mio rapporto con il pianoforte».