Francesco Merlo, la Repubblica 24/12/2012, 24 dicembre 2012
IL PROFESSORE, GERUNDIO D’ITALIA
CON l’inedito ‘chiamatemi agenda’, che è il tempo del dovere, Mario Monti diventa il gerundio d’Italia. E con il suo ‘ci sono e non ci sono ’ aggiorna pure l’ossimoro, che è stata la doppiezza come scienza della politica e come identità nazionali, e invece qui si presenta, nientemeno, con la veste sobria e rigorosa della virtù.
FATECI caso: le parole originate da un gerundio sono le più antipatiche della lingua italiana, agenda, pudenda, mutanda, memorandum, e c’è pure il crescendo che in musica è il sostantivo del volume (rossiniano) e in economia è il sostantivo dello sviluppo (schumpeteriano), vale a dire l’orizzonte di più alta drammaticità del nostro dover essere, del nostro gerundio appunto: «L’uomo politico guarda alle prossime elezioni, l’uomo di Stato guarda alle prossime generazioni» ha detto Monti citando De Gasperi.
L’ossimoro di Monti invece non è drammatico, ma semmai un po’ pomposo: Monti è l’insicuro sicuro di sé che sale in campo per scendere in campo, offre e al tempo stesso nega ai centristi un nome che non li nomina ma li domina. Con lui, lo stesso concetto di ossimoro diventa ossimorico perché l’ossimoro rigoroso e nobile non si era mai visto: «Io non mi candido, non sto con nessuno ma sono disponibile a guidare le forze che approveranno la mia agenda purché siano specchiate e credibili per contenuti, metodo di governo e credibilità di intenti».
La virtuosa doppiezza dello stare in cartellone ma non in scena, che in Italia fu Machiavelli e arrivò a Togliatti, poi si vestì di convergenze parallele e di politica dei due forni; che fu il crisma fondante della Chiesa e, nella forma dell’uno nessuno e centomila, ha dato vita al
pirandellismo, «svolazzo di contorsioni » come diceva Croce, e alle due facce di Andreotti statista e mafioso…, ebbene questa doppiezza con Monti diventa il disinteresse dell’interessato, la pulizia e la bellezza morale del vecchio vizio nazionale, l’antica novità: «Il mio metodo è un po’ strano e un po’ nuovo».
Addirittura il vademecum del perfetto italiano è stato poi raccontato da Monti, nella trasmissione di Lucia Annunziata, come totalmente estraneo al Paese: «Mi rendo conto che sia difficile capirmi perché il metodo dell’agenda Monti è inedito ». E torniamo così all’Agenda che, Moleskine o Planing o Monti che sia, sempre raggruppa le cose che si devono fare: pagare le tasse, la visita dal dentista, rinnovare il passaporto, la rinunzia ai diritti sindacali… Ma se uno riceve il premio Nobel o ha un appuntamento con la Marilyn Monroe dei suoi sogni non lo segna certo sull’agenda, e mai nessuna donna consegnerà all’agenda un’intermittenza del cuore, prevista a una certa data e a una certa ora: «lunedì 13 gennaio, ore 16,45: principe azzurro». Per le cose piacevoli, per quelle che vuoi e che desideri non c’è bisogno dell’agenda, la quale scandisce solo i doveri
che non puoi permetterti di non rispettare, come onorare il fiscal compact, ridurre il debito, tagliare la spesa sanitaria, e mai le cose veramente belle che non sono quelle che “si” fanno ma quelle che “ti” fanno.
Nessuno dunque ama l’agenda e tuttavia tutti ce l’hanno, e ora anche l’Italia. Ma l’agenda, come il morbillo, diventa simpatica solo “dopo”, quando le macchioline rosse sono sparite dal viso e sono ormai un ricordo, un’immunità, un fastidio di meno e una sicurezza di più: il rispetto dell’Europa, la stabilità nella moneta comune, la ripresa del mercato del lavoro, le donne nel processo decisionale… Insomma l’agenda è simpatica quando finisce, quando da «agenda» diventa «atta», quando i doveri di una legislatura non ci stanno più pericolosamente davanti ma felicemente di dietro: «Al capo dello Stato ho detto: “missione compiuta, presidente” ». Ed è la frase di Monti che ieri ha
conquistato di più — sorrisi al posto degli applausi — perché rivela l’efficienza e la disciplina del servitore dello Stato e non la tronfia vanità del gradasso.
E infatti è stato costruito sull’ossimoro dell’esserci e non esserci, del rumore silenzioso, l’intero Evento, con il centro di Roma bloccato, l’ingorgo attorno a Palazzo Chigi, le mille televisioni, le antenne, i camioncini. Ieri mattina c’era più morbosità attorno alla normalità di Monti di quanta se ne addensò attorno alle mostruosità di Avetrana. E se Berlusconi ricorreva alle navi, al marketing creativo, alla bandana, ai mille trucchi dell’imbonitore, Monti ritraendosi ha attratto più microfoni e più telecamere: non si era mai vista tanta ressa attorno alla sobrietà. La conferenza stampa ha avuto più eco ed è stata vissuta con più ansia di quanta ne provoca in Inghilterra il discorso della regina.
E si capisce che non c’è stata nessuna consapevole regia: il tormento sincero di Monti ha avuto un effetto deflagrante, ma senza miccia e senza esplosivo. L’Italia, in stato d’eccezione, sembrava in attesa del suo Decisore, quello di Max Weber o quello di Carl Schmitt, del suo nuovo Garibaldi, e l’incontro con i giornalisti è stato magnifico, ordinato e appassionato, senza insolenze e senza arroganze, senza disturbatori e senza buttafuori: «Lei corre più veloce di me» è stata la risposta, due volte ripetuta, più appuntita, la più dolcemente contundente, perfetta. Il prestigio è più efficace del grottesco.
E il prestigio fa ingoiare anche l’agenda, permette di superare quell’antipatia naturale dell’agenda che, anche nelle cartolerie, subisce abbellimenti e travestimenti di
ogni genere, diventa diario, «programma per il cambiamento e per l’Europa». Una volta le agende venivano abbellite all’esterno: in pelle, in velluto, in sughero. Quindi finalmente si capì che la parte da addomesticare non è l’esterno ma l’interno dove già i nostri nonni lasciavano glissare una ciocca di capelli, un petalo, una foto presto ingiallita. Adesso invece ci mettono cataloghi, illustrazioni, raccontini e aforismi micidiali come appunto quelli che ieri ha pronunziato Mario Monti: «L’equità non è un valore separato ma deriva dalla concorrenza ». O ancora: «La strana maggioranza ci ha impedito di fare meglio ma ci ha permesso di fare bene ».
Qualcuno, e fu la trovata di successo di qualche anno fa, è arrivato ad aggredire e stravolgere persino il nome dell’agenda che da memoranda finse di essere, ricordate?, il proprio contrario: smemoranda. Lo scopo è sempre lo stesso, togliere spazio alla durezza del dover essere, all’agenda, farla scomparire prima ancora di usarla, perché questo è il destino di tutte le cose che si coniugano al gerundio, questo è il paradosso dell’agenda, diventare un pretesto per la propria soppressione.