Federico Varese, La Stampa 24/12/2012, 24 dicembre 2012
“IO, PUSSY RIOT PRIGIONIERA NEL GULAG”
[Maria Alyokhina è detenuta a Perm: nelle sue lettere lavori forzati, inquinamento e gelo] –
«Tutto intorno a me è grigio. Anche se qualche oggetto ha un colore diverso, non manca mai una sfumatura di grigio. In ogni cosa: gli edifici, il cibo, il cielo, le parole». Così scrive in una lettera del 17 dicembre Maria Alyokhina, l’attivista del gruppo Pussy Riot condannata a due anni di prigione nel campo di lavoro numero 28, nella regione di Perm, nei pressi della cittadina di Berezniki. Perm è il cuore dell’Arcipelago Gulag, dove negli Anni Cinquanta c’erano più campi di prigionia che città o paesi. Questa è anche la regione dove ho vissuto per un anno quando ero studente, dove è nata mia moglie e dove torno con una certa regolarità. Quello che può sembrare un luogo remoto e inospitale è il centro del mondo per chi vi è nato.
Nei primi Anni Novanta mi ero trasferito a Perm per studiare gli effetti della transizione all’economia di mercato e l’emergere del crimine organizzato. Lontano da Mosca e nel cuore della Russia. La capitale della regione, anch’essa chiamata Perm, è la terza fermata sulla Transiberiana che va da Mosca a Vladivostok. In quegli anni vi erano pochi voli, e il modo migliore per raggiungerla era col treno che partiva nel tardo pomeriggio dalla stazione Yaroslavsky e arrivava circa ventiquattr’ore dopo. I segni del passato regime erano ancora evidenti nel centro cittadino, come le statue in onore degli eroi sovietici e dei lavoratori stakanovisti. Lo studentato dove avevo trovato una sistemazione si affacciava sulla via Lenin. Mentre in altre città ci si affrettava a cambiare nomi e insegne, qui nessuno sembrava avere fretta.
Maria Alyokhina non ha viaggiato sulla Transiberiana per raggiungere il campo di lavoro numero 28. «Sono arrivata dopo aver fatto tappa in tre prigioni di transito», scrive nella lettera pubblicata sulla rivista Novoe Vremya. «Abbiamo viaggiato in carrozze senza finestrini e in una moltitudine di furgoni. Quando l’ultimo è arrivato di fronte all’imponente ingresso di ferro battuto, ha scaricato diciannove di noi, diciannove nuove prigioniere, future operatrici di macchine da cucire elettriche». Oggi come ottant’anni fa il viaggio verso i campi di prigionia al di là della catena degli Urali segna l’ingresso nell’universo concentrazionario. Lo scrittore russo Varlam Shalamov, che meglio di ogni altro ha raccontato la fragilità e la resistenza dell’anima umana nel Gulag siberiano nell’opera «I racconti di Kolyma» (introdotti in Italia da Piero Sinatti), subì il primo arresto nel 1929 e fu spedito non in Siberia ma nella regione di Perm, a Berezniki, dove fino al 1931 lavorerà alla costruzione di uno stabilimento chimico. Lo sfruttamento su scala industriale del lavoro forzato fu concepito proprio a Berezniki. Poiché l’esperimento condotto in quel campo fu ritenuto un successo, le alte sfere del Partito decisero che i lavori forzati sarebbero stati alla base di ogni nuovo progetto industriale. «Da allora», scrive Shalamov, «nessuna regione fu senza un campo di lavoro, nessun nuovo progetto senza la sua quota di forzati».
Berezniki è un gioiello dell’architettura stalinista, la città socialista per antonomasia, costruita durante il primo piano quinquennale (1928-1932) in puro stile costruttivista. Gli affreschi sui palazzi pubblici celebrano l’anno di fondazione, il 1932, e i pionieri delle organizzazioni giovanili del partito, ma dimenticano di ricordare che Berezniki fu costruita dagli zek, abbreviazione con cui la burocrazia sovietica chiamava i prigionieri del Gulag. Gli impianti chimici e le miniere della città che compaiono nei racconti di Shalamov sono tuttora in funzione: oggi producono fertilizzanti e carbonato di potassio.
A queste latitudini, però, non ci sono solo l’architettura e la taiga da ammirare. Questa terra rappresenta il grado zero della devastazione industriale del Ventesimo secolo, un buco nero quasi del tutto ignoto al resto del mondo. Come ricorda lo studioso Paul Johnson, a Berezniki i bambini sotto i quindici anni sono otto volte più a rischio di soffrire di malattie ematiche dei coetanei che vivono nei 121 centri più inquinati dell’ex Unione Sovietica. Ogni anno più di tre milioni di tonnellate di rifiuti tossici entrano nell’atmosfera e almeno 100.000 ettari di vegetazione è andato perduto per sempre. Maria Alyokhina scrive nella sua lettera: «È abbastanza ironico che io, una ex attivista del movimento ecologista, sia finita in un’area dove la gente respira i rifiuti della produzione industriale più pericolosa del pianeta». Ma non è tutto: negli ultimi anni l’intera città viene risucchiata in immense voragini, imbuti che si aprono senza preavviso nel terreno a seguito dell’intensa attività estrattiva. Una voragine si è aperta sotto i binari della stazione, un’altra a pochi centimetri da un complesso di appartamenti. La più grande di queste valli carsiche è larga 100 metri e profonda 237. Duemila persone sono già state evacuate ed è stato messo a punto un piano per ricostruire la città sulla sponda opposta del fiume Kama. A pochi chilometri dal centro cittadino, nel campo di lavoro numero 28 la vita è scandita dai rituali delle istituzioni totali, come racconta l’attivista delle Pussy Riot. «Sveglia alle cinque di mattina, corsa ai bagni (tre lavandini e due cessi per quaranta prigioniere), colazione alle sei. Dopo due settimane che mi lavo nell’acqua gelata, le mie mani hanno cambiato colore...». Le regole sono ferree e vengono ripetute tutte le mattine nella «stanza del regolamento». Ogni conversazione nel campo ruota intorno al rilascio anticipato, noto con l’abbreviazione Udo, con l’accento sulla «o» finale. «Vuoi un Udo? Ti daranno un Udo? Quand’è il tuo Udo? Cosa farai dopo l’Udo?». Ottenere un Udo non è difficile, basta cucire per dodici ore al giorno senza lamentarsi, denunciare le proprie compagne, tacere, andare a messa, sopportare e, conclude Maria, «infrangere anche l’ultimo dei propri principi».
Le coincidenze della geografia e della storia sono impietose e rivelatrici. Ekaterina, nata pochi mesi dopo Maria Alyokhina, ha qualcosa in comune con l’attivista delle Pussy Riot. Entrambe figlie della Russia post-sovietica, sono di estrazione borghese e hanno frequentato l’università. Il padre di Ekaterina, Dimitri, è un medico di Perm che ha fatto fortuna, fino a diventare l’oligarca locale: come ogni centro abitato dell’Urss poteva vantare un suo Gulag, oggi ogni municipalità può vantare un suo oligarca. Fino al 2008, Dimitri era il padrone della miniera che ora sta risucchiando Berezniki in crateri sempre più grandi. Nel 2010 si è trasferito nel Principato di Monaco, dove ha comprato la locale squadra di calcio. Nel frattempo è stato esonerato dal governo per ogni danno ambientale. La figlia Ekaterina ha acquistato qualche mese fa l’appartamento più costoso mai venduto nella Grande Mela, al numero 15 di Central Park West. Chissà se i suoi vicini di casa o i compagni di università americani saranno mai in grado di tracciare la linea che separa ed unisce Ekaterina e Maria: una linea tanto breve quanto infinita. Vent’anni fa volevo studiare come la patria del Gulag si sarebbe adattata all’economia di mercato. Oggi questa terra grigia inghiotte i suoi figli migliori, mentre altri fanno lo shopping di Natale sulla Quinta Strada.