Cesare Martinetti, La Stampa 24/12/2012, 24 dicembre 2012
PIRLO: “SOGNAVO UNA VITA DA MEDIANO”
[Gli italiani simbolo dell’ultimo anno: il regista della Juve si confessa] –
Il bello di Andrea Pirlo è che se gli chiedi che cosa voleva fare da grande o a chi voleva as- 2. somigliare, lui cincischia un po’ con le parole e alla fine capisci che voleva diventare Andrea Pirlo. Missione compiuta. Complimenti. Anche perché lo dice senza esibizionismo e senza arroganza. E nemmeno, al contrario, con la fintamodestia dei timidi. Pirlo è fatto esattamente come ci appare alle 10 del mattino nel bar sotto casa: un giovanotto silenzioso e ben educato, giacca blu e camicia azzurra che beve una spremuta d’arancia sfogliando i giornali in mezzo alla gente che non si cura di lui. “È vero – ci dice – ho coronato il mio sogno”.
Per raccontare questa storia dal- Proviamo a cominciare dall’ulti- ninho: colpiva in centro con le dita l’inizio e capire perché l’abbiamo mo gol, Juve-Atalanta, domenica, del piede, la palla non girava nemscelto come il calciatore che ha se- 16 dicembre, minuto 16 del primo meno ma prendeva una traiettoria gnato di sé il 2012, bisogna tornare tempo. Punizione di prima una de- imprevedibile». Una palla avvelea un po’ più di anno e mezzo fa cina di metri fuori dall’area, leg- nata. quando Pirlo era stato di fatto “rot- germente spostata sulla sinistra. Pirlo è nato a Flero, cinque chilotamato” (è la parola dell’anno) dal Pirlo calcia, il pallone si alza, supe- metri fuori Brescia. Il padre ha Milan, squadra nella quale aveva ra la barriera, si alza ancora e un’azienda siderurgica, tondini e giocato dieci anni vincendo tutto quando sta per avvicinarsi alla simili, il core business della zona, quel che un calciatore può sognare porta come se fosse teleguidato, un centinaio di didi vincere. Fu allora che a Torino scende in picchiata e si infila tra pendenti, «mai gli offrirono una maglia con un pas- palo e traversa. Una traiettoria di- nessuno in cassa sato glorioso e un futuro tutto da segnata dal computer, la parabola integrazione», diconquistare. Pirlo ha preso l’una e ellissoide di un satellite che rien- ce Andrea «con l’altro, se li è messi sulle spalle, ha tra nell’atmosfera dopo aver visi- o rgo gl i o » : d a vinto lo scudetto e rottamato i suoi tato le stelle. Sorride Pirlo: «Era quelle parti rottamatori. Amen. Vendetta? Ri- tanto che non la calciavo così». Az- l’azienda è la famivincita? Non sono parole da Pirlo. zardiamo un paragone: così come glia e la famiglia è Chi c’era, nello spogliatoio di Trie- le tirava Platini? Ma lui segue il l’azienda. Suo fraste, alla fine di Cagliari-Juventus, il suo filo: «Quand’ero ragazzo ho tello ci lavora. E 6 maggio di quest’anno, quando fu giocato due anni con Baggio, nel sarebbe stato il matematico che lo scudetto torna- Brescia, persona magnifica, gran- naturale destino va sulla maglia che più di tutte ne dissimo calciatore. L’ho osservato anche per lui. «Ma io fin da bambiera orfana, racconta che Andrea da vicino». Altri modelli? «In quel no non ho mai desiderato altro che Pirlo ha pianto. E tanto basta per periodo in edicola si trovava una di giocare a calcio». E suo padre capire che sotto la corazza batte serie di cassette video sui “numeri gliel’ha mai impedito? «Mai, anzi. quel cuore da ragazzo che tutti i 10”. Io guardavo Zico, Marado- Adesso allo stadio non ci viene, ma calciatori dovrebbero custodire na...». E la famosa “maledetta”, da quand’ero ragazzo sì, anche se si teperché il calcio resti il calcio e non chi l’ha imparata? «Per quella ho neva ben lontano dalle tribune peraltro. osservato molto il brasiliano Ju- ché non sopportava le cazzate che dicevano gli altri genitori».
È così che nelle giovanili del Brescia Pirlo comincia poco a poco a diventare Pirlo, lucidamente, consapevolmente. Gli chiediamo: giocava centravanti, come tutti i ragazzini che vogliono fare gol? No, altrimenti non sarebbe Pirlo: «Io volevo giocare in mezzo al campo, volevo essere libero di andare a prendere la palla dappertutto, mi piaceva mettere gli altri in condizione di far gol». Voleva fare il regista, come si diceva allora, il gps della squadra, come qualcuno dice adesso. Il titolare di un software sofisticato e sensibile, divenuto via via regolare come un metronomo, creativo e libero come un direttore d’orchestra per «mettere gli altri soli davanti al portiere». Ed è vero che, come si racconta, chiede sempre la palla ai compagni? Sorride: «Sì, vorrei averla sempre io».
Tutto questo è scritto sulla faccia di Andrea Pirlo e bisogna guardarla con attenzione. È la faccia di uno che fa tutto sul serio. È facile trovare foto in cui piange come un bambino (dopo Spagna-Italia 4-0, finale degli Europei), difficile trovarne una in cui ride. Lui si dispiace un po’, come dovesse giustificarsi: «Non è vero, rido spesso, in allenamento e nello spogliatoio scherziamo molto». Eppure osservatelo bene, anche dopo un gol, come quello da antologia della punizione contro l’Atalanta: ha la faccia seria di uno che ha compiuto il suo dovere, Pirlo è un Faussone che ha nei piedi la sua “Chiave a stella” ed è soddisfatto del “lavoro ben fatto”, il capolavoro di un gol nel quale realizza la sua etica del lavoro.
È su questa banda di sintonia che si è realizzato un innesto perfetto con Torino e la Juventus, nel culto del lavoro e del risultato. La felice follia del leccese Antonio Conte ha impastato nella fabbrica degli scudetti marchiata Lingotto questo ragazzo venuto dalla bresciana, dove le vere cattedrali che racchiudono lo spirito degli uomini sono le fonderie, le ciminiere invece delle guglie. Anche la sua creatività da genio del football, per Pirlo, è prima un dovere; poi un piacere. Come per la Juventus la vittoria. In una vecchia intervista aveva detto: «Per giocare mi sono perso un pezzo di vita». Lui conferma: «Sì, la maggior parte della mia esistenza l’ho passata negli alberghi e sui campi. Quand’ero ragazzo i miei amici uscivano la sera mentre io dovevo andare a letto presto...». Stufo di questa vita? «No, per ora mi diverto e finché mi diverto non c’è problema».
A Torino, Pirlo dice di sentirsi bene. Dopo aver visitato una ventina di abitazioni tra cui molte in collina, ha scelto un appartamento in centro, vicino al Po, in uno storico angolo aristocratico dell’ex capitale. La moglie si chiama Deborah, e stanno insieme da quando erano ragazzi; hanno due figli: Nicolò, 9 anni, Angela, sei. Vanno a scuola al San Gip. Un perfetto quadretto da famiglia bene torinese. Lui talvolta va anche a vestirsi da Jack Emerson, tradizionale negozio di abiti e stoffe inglesi, una sorta di linea della grolla sabauda, dove sono passate generazioni di giocatori juventini a cominciare dall’allora aspirante baronetto Gianluca Vialli.
La sua vita, ci racconta, è assolutamente normale. Non finge vezzi intellettuali, l’ultimo libro che ha letto è quello di Fabio Volo (“Uno che è nato dalla mie parti”), l’ultimo film che ha visto è “Il peggior Natale della mia vita” e l’ha trovato così così. Non è un fanatico di computer o videogiochi, i giornali li legge al mattino qui al bar. Gli amici sono i compagni di squadra. Chi? Matri, con il quale condivide la camera d’albergo nei ritiri. Poi Marchisio, Giaccherini, Barzagli. «Quelli che hanno famiglia», dice. La musica gli piace, ma non pare troppo. Quale? «Un po’ tutta». Ma ce n’è una che ascolta in modo particolare quando entra allo stadio per la partita e come ogni giocatore si chiude nel proprio mondo sonoro? «Sì, Ligabue, una vita da mediano».
Ma come, Pirlo, quest’artista del calcio, l’uomo capace di disegnare con il pallone traiettorie impossibili, si carica per la partita ascoltando la celebrazione del mediano “nato senza i piedi buoni”? Eppure questa è la sua confessione che, però, a pensarci bene chiude il cerchio: ci vuole molta umiltà per essere Pirlo. Tra poco si assegnerà il Pallone d’oro e molti – a cominciare da Platini – hanno detto che quest’anno lui è quello che se lo merita di più. Ma non lo vincerà, lo sappiamo già. Questo ragazzo che non alza mai la voce che non litiga con nessuno che ha preso soltanto un rosso in tutta la sua vita per un fallo da dietro nemmeno cattivo, invece di stare qui a chiacchierare educatamente in un caffè della vecchia Torino, per vincere il pallone d’oro dovrebbe girare il mondo rutilante dei media a fare pubbliche relazioni. Ma non lo ha mai fatto, altrimenti non sarebbe diventato quello che ha sempre voluto essere: Andrea Pirlo.