Antonio Macaluso, Corriere della Sera 27/12/2012, 27 dicembre 2012
«Giovani? Potremmo assumerne a centinaia. Ma ci vorrebbero un sistema economico più aperto, regole certe, un Fisco non punitivo, un mercato del lavoro regolato in modo più moderno, la protezione del diritto d’autore
«Giovani? Potremmo assumerne a centinaia. Ma ci vorrebbero un sistema economico più aperto, regole certe, un Fisco non punitivo, un mercato del lavoro regolato in modo più moderno, la protezione del diritto d’autore. In un Paese normale, niente di impossibile. A quel punto, il sistema televisivo potrebbe davvero trainare la ripresa». Un manager ottimista. Non sarà troppo? «Niente affatto. Parliamo di un settore importante — spiega Andrea Zappia, numero uno di Sky Italia — con fatturato e investimenti che negli ultimi dieci anni sono raddoppiati. Il punto è che la redditività è ridicola, lo 0,4% nell’ultimo anno, roba da old economy. Con queste cifre, quasi non vale la pena, la mattina, di alzarsi per andare a lavorare. Le do un dato su Sky, basato su uno studio della Fondazione Rosselli: nell’ultimo decennio, Sky è stato il più grande investimento estero in Italia. Nei primi otto anni, abbiamo investito per 9,2 miliardi di euro, con un impatto stimato sull’economia italiana di 19,2 miliardi, l’1,3% del Pil, dando lavoro a quasi 8 mila persone in modo diretto e quasi 15 mila considerando l’indotto. Con questi tassi di redditività, come può venir voglia di continuare a investire?». Dunque, questione di regole. «Non solo. Anche di mentalità: i mercati vanno lasciati liberi o aiutati a svilupparsi, non tenuti imbrigliati. In Italia, da troppo tempo, non si tiene conto del fatto che gli unici che creano lavoro sono quelli che decidono di rischiare denaro sulla base di un’idea». Da dove vengono le resistenze maggiori? «In Italia c’è sempre grande paura rispetto a ciò che è grande. Viviamo di piccole e medie imprese, ma se vogliamo portare questo Paese al centro dell’innovazione non solo finanziata dalle tasse, ma anche dalle aziende private, dobbiamo accettare che le grandi dimensioni siano un fattore di creazione di ricchezza. Prenda Sky Italia: la nostra dimensione è la metà di quella di Sky Gb. Il sistema non ha saputo capitalizzare l’aumento di ricchezza del settore generato dalla pay tv che, pure, lo ha arricchito per 3 miliardi. Si è creata un’offerta vastissima, ma spesso di qualità molto bassa. E la frammentazione è il grande nemico di questo mercato. Le faccio l’esempio delle frequenze tv digitali terrestri: in Italia ce ne sono molte più che negli altri grandi Paesi europei, 21 multiplex contro i 6-7 medi di Francia, Germania e Gran Bretagna. E se ne stanno per mettere sul mercato altre, nonostante ce ne siano già di vacanti. Così non si crea valore, lo si distrugge». Lei quindi non ritiene l’offerta attuale adeguata in termini qualitativi? «Partiamo da un dato di fatto e cioè che, da un lato, ci si aspetta grandi investimenti, come calcio, produzioni originali, tecnologia; dall’altro, un mondo fatto di scelta illimitata, in cui anche l’informazione esploda. Le due cose non sono compatibili in una economia di scala. Il mercato va ridefinito e unificato. Un concetto non scontato. Qualcuno ancora definisce Sky "dominante sul satellite", come se non fosse vero che tutti competiamo sullo stesso mercato. Il rischio è di non riuscire a capitalizzare un settore importante. Sky ha fatto uno sforzo per far capire che una tv migliore va pagata e, nello stesso tempo, se non ci fosse stata Sky, non guarderemmo la tv in "hd", non potremmo mettere in pausa la tv in diretta, non potremmo vederla mentre siamo in viaggio o lontani dai televisori e così via dicendo». Dunque, regole certe e uguali per tutti gli operatori e, mi par di capire, tutela delle produzioni originali, per favorire la qualità… «Il contenuto è sempre più centrale. Non spezzare la catena del valore che ripaga chi investe in produzioni di pregio è fondamentale per non stroncare la crescita di questo mercato. Le piattaforme distributive sono appetibili solo in funzione dei contenuti che veicolano e, senza investimenti in nuove produzioni, perderebbero la loro ragion d’essere. Sarebbe come avere autostrade con nuove corsie dove non transitano però nuovi veicoli». Come per la carta stampata, anche per le tv, è fondamentale la tutela del copyright. «È irrinunciabile. Distribuire contenuti prodotti da altri senza costi di acquisizione, azzera la redditività di chi produce ma, soprattutto, crea un danno all’intero comparto compromettendone la crescita. Rai, Mediaset, Sky, Telecom Italia Media, ma anche le tante realtà televisive locali, hanno interessi comuni. Riguardo alle news, ad esempio, se non proteggiamo i diritti di chi investe per realizzarle, tra poco a produrle saranno solo tre generi di attori: i ricchi, i governi, oppure i dilettanti». Il vero punto, è la regolamentazione di Internet. «Siamo tutti in lotta creativa per vincere il tempo che un italiano sceglie di passare guardando la tv o al computer. La gara è una sola, il mercato pure. E ha bisogno di poche regole, certe e uguali per tutti. Queste regole oggi esistono per tv e carta stampata, mentre Internet non ne ha. Chiediamo qualche regola in meno e meno tasse per carta stampata e tv e più regole e una tassazione anche per chi opera sul web. È importante discutere in modo sereno, senza innamorarsi di un mezzo. Oggi tutti sono innamorati del web, percepito come nuovo e giovane e in grado di dare consenso politico a chi lo difende. Ma anche la tv è molto nuova e comunque Internet non contiene solo dinamiche positive». Quando parla di tasse, immagino si riferisca anche al costo del lavoro. «Il problema del costo del lavoro si accompagna a quello della struttura del mercato del lavoro. Da questo punto di vista, la legge Fornero non ha certo aiutato le imprese, compresa la nostra. Richiede troppa stabilizzazione in una fase in cui il business è instabile. In condizioni diverse, assumeremmo centinaia di persone. Ma non ci si aiuta a individuare i modi per dare più lavoro e farlo costare di meno. In Italia il cuneo fiscale è di 12 punti più alto della media Ocse, il 47,6% contro il 35,3%, il che vuol dire che, a parità di costo per un’azienda, un italiano guadagna il 12% in meno». E il calcio? «I ricavi complessivi dalla vendita dei diritti tv sono cresciuti molto in Italia: siamo passati dai circa 420 milioni di euro del 2002-2003 (pay-free) a ben oltre un miliardo di euro. Tuttavia, le risorse aggiuntive non sono state proficuamente reinvestite nel sistema e il quadro normativo di riferimento relativo alla protezione dei diritti di proprietà intellettuale non sempre ha garantito una protezione adeguata contro gli sfruttamenti non autorizzati. Direi che in Italia c’è stato un grande supporto legislativo a costruire un mercato che di fatto ha distrutto valore. Le principali Leghe europee vendono i diritti in esclusiva. L’Italia è l’unico Paese che si sottrae: così non si riesce a creare valore. E senza valore, alla lunga, non c’è sostenibilità. La battaglia dei prezzi al ribasso non fa bene a nessuno. C’è come stata una spinta politica un po’ populista che è stata capitalizzata dal calcio, che si è fatto pagare di più. Non si può volere tutto, da un lato grandi investimenti sui diritti, dall’altro prezzi bassissimi». La critica alla gestione federale del calcio, oltre che ai club, non mi pare molto velata… «Non si tratta di criticare, piuttosto di spronare. Faccio presente che all’estero sono molto più bravi a raccogliere risorse: la Premier League incassa in diritti esteri quasi un miliardo di sterline, la serie A in Italia 120 milioni di euro...». Un quadro desolante. «No qualche segnale c’è: la Juventus, ad esempio, con il suo nuovo stadio, ha avviato un ciclo virtuoso». Tra un paio di mesi si va al voto, e Silvio Berlusconi, il proprietario di Mediaset, torna in campo… «Berlusconi è in campo da vent’anni, faccio fatica a vederlo come un capo azienda. Trovo del tutto legittima la sua voglia di ricandidarsi e ci sentiamo neutrali nei suoi confronti. Mi sembra, altresì, di vedere che il Paese stia mostrando forte voglia di cambiamento». Cosa pensa di Mario Monti? «Il governo Monti ha fatto molto per evitare il disastro. Chiunque vinca le elezioni troverà un’agenda in sostanza obbligata per quanto riguarda i punti fondamentali. L’importante è trovare il modo per tornare a fare sviluppo e attirare investimenti. Io sono ottimista anche se devo ammettere che l’Italia ha una straordinaria capacità di resistere al cambiamento». Come si collocherà Sky, al di là della par condicio? «La prendo come una provocazione… Noi ci prepariamo alle elezioni senza neanche pensarci. Dovremmo sempre aspettarci che chiunque faccia informazione sia neutrale oppure dichiari per chi tifa. Noi siamo neutrali: ciò che è buono per l’Italia, è buono per Sky. Crediamo nella forza della democrazia e pensiamo che le persone siano mature per scegliere consapevolmente. Il ruolo di chi fa informazione è aiutarle a scegliere dando loro i fatti nudi e tutte le voci, incalzate dalla ricerca della verità. È esattamente ciò che fa Sky Tg24. Pensate al confronto tra gli aspiranti leader del Pd alle primarie: ne siamo orgogliosi. Loro sono andati dai loro elettori, e noi ce li abbiamo portati per come erano davvero — uomini e programmi — senza un vero filtro. Tenendoli sui fatti concreti». Antonio Macaluso