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 2012  dicembre 24 Lunedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

BUDAPEST
Lei, Andrea Kobor, è la bionda magiara perfetta, maglione irlandese blu e orecchini sudamericani suggeriscono che quel bel sorriso è di sinistra, quasi
jeunes filles rouges, toujours plus belles.
Lui, Daniel Kìs, è un gentilissimo bel ragazzo impeccabile, barba dal taglio perfetto al filo della mascella, giacca e cravatta tutto borghesia per bene, conservatore dichiarato, sembra un giovane pro-Sarkozy, Merkel è il suo idolo e due anni fa era per Orbàn. Nello stesso partito non potrai mai vederli, eppure ora lottano insieme ogni giorno, l’una accanto all’altro in piazza incitano i giovani a non cedere, a protestare fino all’ultimo, loro due quasi mano per mano nel gelo invernale su palchi improvvisati, mentre davanti al Parlamento o a Moszkvà
Tér universitari e liceali bruciano simbolicamente i contratti-capestro con cui Orbàn, che taglia quasi ogni fondo agli atenei, vuole imporre ai giovani l’impegno preventivo a lavorare solo in patria dopo la laurea, insomma la rinuncia al futuro.
«No, questo non lo inghiottiremo mai, la libertà non è uno scherzo, rifiutiamo appoggi di ogni partito ma siamo patrioti e vogliamo lavorare qui a patto che sia per scelta, basta con questo “chi non è col governo è contro la nazione”», dicono i due fianco a fianco e, al freddo sottozero, incitano con megafoni di fortuna le piazze piene di giovani a cantare l’inno nazionale, Szozat o “Evviva la libertà ungherese”, i canti del Risorgimento. O l’Inno alla gioia di Beethoven. Budapest, Natale amaro per l’autocrate amico di Berlusconi: sboccia sorridente e non violento nel gelo un piccolo Sessantotto natalizio ungherese
ma senza ideologie totalitarie.
È partita dai giovani apolitici e indifferenti fino a ieri la prima sfida minacciosa, con la solidarietà di rettori, insegnanti e famiglie, e si respira un’atmosfera quasi come nella Varsavia ‘68 di Kuron e Michnik o nella Parigi di Cohn-Bendit, nella Praga con i giovani in piazza per Dubcek contro i Panzer russi o nei campus americani dove i giovani davano alle fiamme le cartolineprecetto per la
dirty war
in Vietnam. Speranza e sorpresa, i giovani provano a svegliare l’Ungheria e per la prima volta il potere di
Orbán tradisce panico e paura.
«Abbiamo sei punti di rivendicazioni, non cederemo su nessuno, meno che mai sul no alla libera circolazione per i laureati», dicono concordi Andrea e Daniel, leader di Haha e Hook, i due movimenti studenteschi. Sei punti irrinunciabili che ricordano i 21 punti per la libertà sindacale e d’opinione con cui - guidata da Lech Walesa e assistita dai grandi intellettuali oppositori, Kuron, Geremek, Michnik o Mazowiecki - Solidarnosc nel lontano agosto ‘80 aprì la prima breccia nel Muro e nell’Impero. No ai tagli brutali agli atenei, diritto di studio senza discriminazioni di censo, ripristino delle Borse di studio che Orbán vuole cancellare lasciando l’università solo ai figli dei nuovi ricchi suoi seguaci. E
ancora: riforme e risparmi sì ma negoziati con rettori, insegnanti e studenti, e no al capestro dell’obbligo di non espatriare dopo laureati. Sfilano in piazza ogni giorno, calmi ma combattivi. «Guarda, ecco il nostro simbolo», mi dice sorridendo nel corteo la giovanissima Fruzsina: è un fiocco tipo anti-Aids, ma nel colore giallo fluorescente delle divise della polizia di pronto intervento. «Gentilezza verso di loro che non ci attaccano, invito a pensare ai loro figli».
Kossuth tér, Astoria, i bei ponti sospesi sul Danubio, la piazza davanti al Palazzo della radio dove nel ‘56 cominciò la rivoluzione. Pacifici ma decisi, i ragazzi col fiocco giallo percorrono i luoghi della memoria tragica dell’Ungheria moderna. Orbán è colto di
sorpresa, promette concessioni ma non sul divieto d’espatrio di fatto, «e per le facoltà decisive, specialità economiche o diritto o altre, 16 in tutto, vuole che gli studenti paghino, senza più Borse», spiega Andrea. La lista dei tagli è brutale: dai già pochi 200 miliardi di fiorini per le università di pochi anni fa, il governo vuole scendere a 120 (in Germania la sola università della piccola Bonn ne ha 180 annui minimi). Conti al netto dell’inflazione, avvertono gli economisti. Agli antipodi di Berlino Stoccolma o Helsinki ma anche della Polonia liberal. Poco importa, il regime alterna frasi allettanti a calunnie. «Il movimento è grandioso, ma devono capirci», ha detto Orbán tornato in corsa da Bruxelles dove era stato l’unico al Ppe a lodare l’amico Berlusconi.
Editorialisti e turiferari del regime vanno giù più pesanti. Per Zsolt Bayer, columnist antisemita amico del premier, il conservatore Daniek Kìs e i suoi «sono solo barricadieri estremisti e sfaticati, contro questo nuovo Cohn-Bendit reagiremo come de Gaulle, con la maggioranza silenziosa in piazza, le organizzazioni di questi giovinastri barricadieri sono strumenti dell’opposizione di sinistra, ricordano la vecchia gioventù comunista». Cui Bayer in passato appartenne per carrierismo, notano i due leader del movimento. «Ma quali barricate? Non siamo ideologici, io sono conservatore ma non per avere un governo che vuole essere il solo ad aver ragione, ci siamo rivolti alla Corte europea e alla Commissione », mi spiega Daniel. Lui
come Andrea organizzano tutto online e su
Facebook,
più veloci in rete d’un potere abituato a decidere e imporre sempre tutto e colto di sorpresa. Direttivi e comitati di base si vedono ogni giorno in caffè e bistrò di tendenza del bel sudest giovanile di Buda attorno a Kalvin Tér. «C’è di peggio, il superministero per le risorse umane che ha in mano istruzione, sanità, welfare e altro», mi spiega Daniel, «ha fornito i nostri dati personali ai giornali governativi che ci diffamano».
Il governo calunnia, minaccia, «e cerca di dividerci», avvertono sia Daniel sia Andrea, ma il movimento si allarga. Da Budapest a ogni altra città sede universitaria. Rettori, sindacati degli insegnanti e pedagoghi, genitori, sono con loro, da finestre e balconi la gente applaude i ragazzi. Protesta civile, cortei ogni giorno ma non hanno interrotto né corsi né esami. «Il potere dice solo “chi non è con noi è contro di noi”, linguaggio stalinista, io voglio credere che siamo una libera democrazia occidentale », continua Daniel. «Ora siamo uniti, lo resteremo rimanendo diversi», incalza Andrea. «Noi siamo una Ong, puntiamo a dire no anche al legiferare autoritario a raffica con cui Orbán svuota la democrazia. E vogliamo dare un esempio, aiutare e incoraggiare studenti e società a organizzarsi, a dire basta a un potere secondo cui il dibattito democratico è perdita di tempo».
Natale amaro per l’autocrate Orbán, la lotta dei ragazzi d’idee diverse ma ora uniti continua. Risveglia speranza anche nell’intelligentsia anziana degli eterni dissidenti, ieri contro l’Impero del Male e oggi contro l’autocrate che li espelle dalla vita culturale. «Gli studenti coraggiosi mostrano per primi a noi adulti sfiduciati
che unirsi, dire no e lottare è possibile, toccherà ai partiti d’opposizione imparare la lezione », afferma Péter Eszterhazy, uno dei massimi scrittori nazionali. «È una svolta, dopo due anni di voci governative invitanti a far sparire le opere di noi scrittori critici da ogni libreria. Questa gioventù apolitica e apatica fino a ieri ha sorpreso noi come il governo, sveglia tutti, invita a smetterla col linguaggio aggressivo del potere e le sue tradizioni antiche ». Incalza il suo collega e amico Gyorgy Konràd: «Disciplinati, bravi a discutere e negoziare, gentili coi poliziotti, innamorati dello Stato di diritto. Riportano noi adulti al mondo, alla voglia di viverlo, sono la prima luce di speranza ». E correndo nella splendida capitale a caccia di voci della
vecchia intelligencija, odiata dal potere oggi come ieri, ecco la voce del più radicale, Gaspar Miklos Tamas: «È la prima resistenza efficace contro l’autocrate, in una settimana i ragazzi hanno realizzato l’unità d’azione che i partiti democratici storici cercano invano da due anni. Alle elezioni del 2014 toccherà alle opposizioni saper vincere. Se per disgrazia i giovani non dovessero vincere ora, avranno dimostrato che ribellarsi è possibile. Saranno comunque una “rivoluzione vinta ma feconda”, come il grande esule François Fejtö definì il ‘56 del paese in armi contro Mosca.