Corradio Stajano, Corriere della Sera 24/12/2012, 24 dicembre 2012
In un piccolo libro che raccoglie due discorsi che Adriano Olivetti fece negli anni Cinquanta del Novecento sono contenuti giudizi impensabili sulla bocca di gran parte degli imprenditori di oggi
In un piccolo libro che raccoglie due discorsi che Adriano Olivetti fece negli anni Cinquanta del Novecento sono contenuti giudizi impensabili sulla bocca di gran parte degli imprenditori di oggi. Quando, il 23 aprile 1955, parla agli operai di Pozzuoli in occasione dell’apertura di una nuova fabbrica, Adriano si fa una (finta) domanda: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?». Risponde con un’altra domanda: «Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?» Adriano, figlio di Camillo, fondatore, nel 1908, della Olivetti, è un uomo di fede profonda negli ideali che dovrebbero sorreggere l’esistenza: «La nostra Società — dice agli operai in quel sabato di primavera — crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possono essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». Questo librino di Adriano Olivetti, Ai lavoratori, pubblicato dalle Edizioni di Comunità, con una prefazione di Luciano Gallino (pp. 55, 6), è un documento importante, una microscopica bibbia che ha per protagonista il lavoro, il rapporto tra imprenditore e dipendenti, ha soprattutto per protagonista il vivere che può e deve essere civile. Luciano Gallino, illustre sociologo che lavorò all’Olivetti in un’irripetibile fervida stagione, con scrittori, poeti, architetti, politologi, — tra gli altri Paolo Volponi, Franco Momigliano, Bobi Bazlen, Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Tiziano Terzani, Franco Fortini, Renato Rozzi, Francesco Novara, Bruno Zevi, Ottiero Ottieri — spiega nella sua nota qual era il carattere umano e culturale di Adriano. Non era un padrone retorico, ma un suscitatore di energie. I lavoratori traggono vantaggio dall’impresa che dà loro i mezzi di produzione, pensava, l’impresa ha un debito con i lavoratori per la loro fatica, per lo sfruttamento delle capacità professionali che mettono l’impresa nelle condizioni di produrre e di guadagnare. In questi discorsi, Adriano affronta con limpidezza i problemi nodali della società. Nel parlare a Ivrea, il 29 dicembre 1954, agli operai che hanno lavorato per 25 anni all’Olivetti — le «Spille d’oro» — ricorda l’ammonimento che gli fece il padre quando assunse responsabilità nell’azienda: non licenziare mai quando mutano i metodi di lavoro perché la disoccupazione è il male più terribile che affligge la classe operaia. L’ingegner Olivetti rispettò sempre quella raccomandazione. Era un ricercatore nato, sempre teso alla scoperta del nuovo, un anomalo, incomprensibile nel grigio conformismo del capitalismo di allora, gli anni delle schedature alla Fiat, dei reparti confino in cui venivano relegati i comunisti, i socialisti, i sindacalisti. «Voglio ricordare — disse nel 1955 — come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno in quale religione credesse, in quale partito militasse». Una vita in nome della fabbrica. Scrive Luciano Gallino che i rilevanti dividendi dell’Olivetti «non si trasformavano, come invece avviene ai giorni nostri, nella maggior parte delle imprese, in larghi dividendi per gli azionisti, né in compensi per i massimi dirigenti pari a tre o quattrocento volte il salario di un operaio, né in spericolate operazioni finanziarie. Diventavano alti salari, magnifiche architetture, una buona qualità del lavoro, una crescente occupazione, servizi sociali senza paragoni». Olivetti riuscì a costruire una rete di stabilimenti in tutto il mondo con 25 mila addetti, investì i guadagni anche in asili nido, case per i dipendenti, biblioteche, colonie, centri di psicologia avanzata. Nei suoi due discorsi affrontò il problema meridionale, oggi scomparso o quasi dalla discussione politica. Fu custode dei problemi dell’ambiente, della tutela del territorio che sarà poi devastato. Non fu un astratto poeta. Morì nel 1960. Quel che aveva seminato durò un po’ di tempo. Poi, poco alla volta, tutto finì nel nulla, come l’elettronica, orgoglio e vanto dell’azienda. Vinse la vocazione finanziaria, l’amato profitto. Fu un’utopia la lezione di Adriano? Probabilmente sì. Quell’uomo di Ivrea, libero antifascista, vicino a Gobetti — aiutò Turati, con Pertini, Parri e Carlo Rosselli, a fuggire in Francia — aveva indicato anzitempo, non solo producendo macchine da scrivere, addizionatrici, telescriventi, calcolatrici, quale avrebbe dovuto essere la via del futuro in un Paese moderno. Ma vinsero i feroci egoismi.