Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 24/12/2012, 24 dicembre 2012
Il Ragno è entrato nella Cappella Sistina la notte del 19 novembre. Il giorno successivo è rimasto acquattato e invisibile dietro un paravento in fondo alla navata, nell’angolo accanto al portone della Sala Regia, aspettando l’uscita dell’ultimo visitatore
Il Ragno è entrato nella Cappella Sistina la notte del 19 novembre. Il giorno successivo è rimasto acquattato e invisibile dietro un paravento in fondo alla navata, nell’angolo accanto al portone della Sala Regia, aspettando l’uscita dell’ultimo visitatore. È di nuovo buio quando emerge dal suo nascondiglio scivolando silenzioso sui cingoli fino al centro della grande aula deserta. Stende le quattro zampe ancorandole con le ventose al pavimento, raccoglie con il lungo braccio un paio di restauratori armati di piumini, aspiratori e pennellesse e li solleva su fino a quindici metri di altezza davanti alle lunette con le Sibille e i Profeti dipinti da Michelangelo. Inizia così il rito della spolveratura della Cappella Sistina, duemilacinquecento metri quadrati di superfici dipinte. Rito che si è ripetuto per ventuno notti, fino all’alba del 14 dicembre, e che il Corriere della Sera ha potuto per la prima volta documentare, grazie alla cortesia del direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci e dell’amministratore monsignor Paolo Nicolini, all’assistenza di Vittoria Cimino capo dell’Ufficio del Conservatore e di Rosanna Di Pinto responsabile dell’Ufficio Immagini. La spolveratura della Sistina è una pratica antica. La istituì papa Paolo III Farnese, creando con il «motu proprio» del 26 ottobre 1543 il ruolo del «mundator». Erano trascorsi due anni esatti da quando Michelangelo aveva dato le ultime pennellate al Giudizio Universale e fu un suo collaboratore, Francesco Amadori detto l’Urbino, a ricevere dal papa il primo incarico di spolverare le pitture della Cappella. L’attività del «mundator» andò avanti per una quarantina di anni, fino al pontificato di Gregorio XIII, sostituito poi dalla figura del «custos». Si spolverava ogni figura con un panno di lino e con mollica di pane leggermente inumidita, come testimonia un certo Simone Laghi, doratore, che fu incaricato di riportare gli affreschi alla «pristina bellezza» nel gennaio del 1625. Nel 1897 è il restauratore Luigi Lais a intraprendere una spolveratura completa della Sistina, sotto la direzione del pittore Francesco Podesti che gli raccomanda di far «uso in generale della piuma nelle pitture, e della morbida lana in particolare ove non si può fare a meno, senza timore di ledere menomamente lo strato colorato il quale sendo ricoperto di sottile e trasparente cotenna è divenuto solido come smalto». La cotenna era dovuta agli strati di olio di lino e olio di noci stesi ripetutamente tra Settecento e Ottocento sui dipinti per ravvivarne i colori offuscati dalla sporcizia e dal fumo dei ceri. Gianluigi Colalucci, che nel 1980 cominciò a restaurare gli affreschi michelangioleschi, già vent’anni prima, al suo primo ingresso in Sistina, si era offerto volontario per eseguire la spolveratura «che per antica abitudine veniva fatta una volta all’anno. L’operazione, che veniva fatta di sera – forse senza soluzione di continuità dal tempo del mundator – in una Cappella Sistina vuota e silenziosa, mi dava l’eccezionale opportunità di stare a contatto di questo impressionante dipinto e di osservarne l’aspetto materico sperando di riuscire a farmi un’idea del suo stato di salute e del problema della tecnica pittorica, dai molti lati oscuri». Dopo i restauri, terminati nel 1994, la spolveratura era stata rallentata, nella convinzione che la pulitura a fondo fosse servita a preservare gli affreschi senza bisogno di ulteriori interventi. Fu Antonio Paolucci, nominato direttore dei Musei Vaticani nel dicembre 2007, a reintrodurre un piano di manutenzione periodica della Cappella. Ispirandosi all’antica figura del «mundator» creò l’Ufficio del Conservatore, con il compito di studiare tutte le possibilità offerte dalla moderna tecnologia per prevenire o tenere sotto controllo i rischi di degrado delle pitture. «L’idea – racconta Paolucci – era di offrire un modello di strategia di conservazione alternativo a quello che si è andato formando nel Novecento, che puntava essenzialmente sul restauro. Un equivoco che perdura a tutt’oggi. I Musei Vaticani hanno invece cominciato a investire nella prevenzione, nonostante ci sia uno squilibrio tra i fondi destinati al restauro e quelli stabiliti per la prevenzione, squilibrio dovuto anche al fatto che il pubblico è attratto dall’intervento straordinario, dalla scoperta sensazionale. Così i soldi per i restauri si trovano, quelli per la prevenzione di meno, perché non fanno notizia, non accendono i riflettori, non attirano sponsor». Compito dell’Ufficio del Conservatore, guidato da Vittoria Cimino - una laurea in Farmacia e un’altra in Tecnologia della conservazione, oltre al diploma dell’Istituto centrale del restauro – è di monitorare minuto per minuto i valori di temperatura, umidità, anidride carbonica, velocità e direzione dell’aria in ogni angolo dei Musei, compresa naturalmente la Sistina. Di controllare l’efficienza degli impianti di illuminazione e climatizzazione. Di seguire il flusso dei cinque milioni di visitatori all’anno. Di ripristinare la spolveratura e il controllo degli affreschi con cadenza biennale. Nell’Ufficio del Conservatore confluiscono tutti i dati rilevati dai ventiquattro sensori distribuiti un paio di anni fa in altrettanti punti strategici della Cappella. «Ci siamo accorti che le pareti della Sistina erano ricoperte da uno spesso strato di laniccia quando abbiamo riappeso, sopra i finti tendaggi dipinti alla base delle pareti, gli arazzi di Raffaello, per capire in quale sequenza erano sistemati qui in origine, prima che venissero spostati nella Pinacoteca», racconta Cimino. «Era l’estate del 2010. Organizzammo subito la spolveratura. Fu la prima volta che il Ragno entrò nella Cappella. Con il braccio snodabile è facile raggiungere i punti più alti sotto la volta e l’intera parete del Giudizio Universale, dietro l’altare. Una volta la spolveratura si faceva montando i ponteggi fino a venti metri. Oggi li utilizziamo solo per pulire il ciclo di pitture dei Quattrocentisti, che arrivano a circa dieci metri di altezza». Alla spolveratura partecipano una decina di restauratori dei Musei Vaticani, aiutati da stagisti - comprese quest’anno due ragazze svedesi - e affiancati da una squadra di attrezzisti. I più giovani confessano di non riuscire a fissare la parete con il Giudizio che per pochi minuti, altrimenti tracollano per l’emozione. Si concentrano, come i chirurghi in sala operatoria, su pochi centimetri quadrati di pittura, cercando di dimenticare la grandiosità delle figure che galleggiano nella profondità dello spazio creato da Michelangelo con il blu di lapislazzuli. Lavorano dalle otto di sera a mezzanotte. Oltre a pulire le pareti, raccolgono campioni di polvere che saranno poi analizzati dai laboratori scientifici; riproducono su schede prestampate i segni grafici delle pitture che verranno messi a confronto con quelli di due anni prima per scoprire eventuali alterazioni; esaminano con la lampada di Wood la consistenza del colore; saggiano l’aderenza degli affreschi poggiando il palmo della mano sinistra sulle figure e battendole dolcemente con le nocche della mano destra. A metà serata si fermano per uno spuntino: panino con salsiccia e cicoria ripassata, consumato nella stanzetta dei custodi e accompagnato da acqua minerale. Qualcuno sogna una birretta, ma in Sistina sono vietati gli alcolici. Si favoleggia tuttavia di un rinfresco, che sarebbe stato allestito sui ponteggi al tempo dei restauri guidati da Colalucci, per festeggiare la pulitura della mano di Nostro Signore che toccando quella di Adamo infonde all’umanità il soffio della vita. Allo scoccare della mezzanotte, ripongono tute e attrezzi e si avviano verso l’uscita. I passi risuonano lungo le gallerie dei Musei Vaticani immerse nel silenzio. Dietro di loro i custodi spengono man mano le luci e chiudono le porte; giunti all’Atrio dei Quattro Cancelli consegnano le chiavi ai Clavigeri, che le conservano in trentacinque cassette divise per reparti: tremila chiavi in totale, tra originali e copie. Tra poche ore, alle sei di mattina, saranno le donne delle pulizie a entrare per prime, rifacendo il cammino all’inverso. In Sistina lavorano in tre: due donne e un uomo, dipendenti di una ditta che ha preso in appaltato i servizi. Lavano i gradini dell’altare con straccio e spazzolone e i pavimenti a tarsie policrome con una macchina lavasciuga elettrica. Spolverano la cancellata marmorea che divide in due lo spazio della navata. Il venerdì puliscono anche le griglie di ottone sul pavimento e la cantoria, passando dolcemente un piumino color porpora sulle pareti che in origine erano affrescate con panneggi e oggi sono fittamente istoriate con i graffiti incisi nel corso di una mezza dozzina di secoli dai cantori desiderosi di immortalare la propria memoria lasciando nomi, date, perfino un pentagramma. Tra le firme si riconosce quella di Josquin Desprez, uno dei più grandi compositori della scuola franco-fiamminga e recentemente identificato da alcuni studiosi nel «Ritratto di musico» di Leonardo. Prestò servizio nella Cappella Sistina tra il 1489 e il 1495 ed è rimasto celebre per la citazione di Martin Lutero: «Gli altri maestri devono fare come vogliono le note, ma Josquin è il padrone delle note, che hanno dovuto fare come vuole lui». La manutenzione delle grandi finestre centinate, chiuse da quando nel 1993 la Sistina è stata climatizzata, è invece riservata ai manutentori interni dei Musei, che vi accedono salendo le strettissime scale inserite nelle contropareti laterali della Cappella. I gradini terminano all’aria aperta, sul camminamento di ronda, al culmine dei robusti contrafforti ordinati nel 1566 da Pio V quando ci si accorse che la Sistina, a causa dell’instabilità del terreno, stava per spaccarsi in due. Le finestre si aprono dall’esterno, si scavalca il davanzale e ci si ritrova direttamente sul cornicione che corre sotto la volta, protetto da una leggera balaustra e largo appena una ventina di centimetri: sotto si spalanca come un abisso la profondità della navata. Il percorso era praticato fino all’Ottocento dai temerari viaggiatori del Grand Tour, desiderosi di vedere da vicino il capolavoro di Michelangelo. Anche se Goethe ricorda che «chi soffre di capogiro non vi si azzarda» e Stendhal ammonisce di non andarci «dopo aver preso il caffè, perché non si penserebbe che alla paura di cadere». Ancor più riservate sono le pulizie della «camera lachrimatoria», a cui si accede dalla porticina a sinistra dell’altare. Gli unici laici che vi possono entrare sono i Sistini, ovvero i custodi della Cappella, scelti tra i 280 custodi dei Musei Vaticani. Sono tre: Stefano Gnazi, Luca Scilimati, Antonio Cordeschi, e conoscono tutti i segreti. Tra di loro si chiamano «sistinari», alla romana. La stanza delle lacrime è in realtà la sacrestia della Cappella, detta più correttamente Sacrario Apostolico, perché custodisce i paramenti e gli arredi sacri usati dal papa nelle celebrazioni liturgiche. Qui, al termine del conclave, il pontefice appena eletto si ritira per pregare in solitudine e indossare la talare bianca con la quale si presenterà al pubblico dalla loggia delle benedizioni. È la stanza dove molti papi si sono abbandonati al pianto, sopraffatti dall’emozione e dal fardello della responsabilità. Minuscola, con un basso soffitto a volta e una finestrella chiusa da grate che affaccia su un terrazzetto dove sopravvive un limone quasi calvo, si apre in fondo a un breve e claustrofobico corridoio. Fino agli anni Novanta era interamente tappezzata di damasco rosso sangue. Il colore doveva accentuare parecchio l’angoscia del cardinale che aveva appena pronunciato l’«accepto». Il damasco oggi resta soltanto nella copertura della dormeuse, unico mobile presente, mentre le pareti, restaurate una ventina di anni fa, si presentano intonacate in avorio con resti di affreschi che gli studiosi fanno risalire ai tempi di Alessandro VI Borgia, essendo riapparsa in mezzo ai motivi decorativi la figura di un toro, emblema del papa spagnolo. Nelle due stanzette che seguono, infilate una dentro l’altra, ci sono un piccolo altare in pietra e un minuscolo museo con il prezioso paliotto di madreperla realizzato nel Settecento per le cerimonie battesimali, due manti preconciliari che venivano indossati sulla sedia gestatoria, la vetrinetta con i cilindri di fumogeni bianchi e neri da usare per le fumate del conclave. Qui sono i Sistini a compiere, tutte le mattine, le pulizie ordinarie. Raccontano che vi hanno anche dormito, su materassini gonfiabili stesi per terra, con il permesso degli Agostiniani, che fin dal Quattrocento custodiscono il Sacrario. «È accaduto in due occasioni: la notte precedente i funerali di Giovanni Paolo II e quella precedente la sua beatificazione. Abitiamo tra Ladispoli e Bracciano e con il grande afflusso di fedeli che c’era a Roma in quei giorni avevamo paura di restare bloccati nel traffico e di non arrivare in tempo per i preparativi delle cerimonie». Sono i Sistini a raccogliere, a fine giornata, gli oggetti smarriti in Cappella dai visitatori, che vengono registrati e consegnati al guardaroba dei Musei. Chi entra in Sistina, forse stordito dalle visioni di Michelangelo, dimentica di tutto: occhiali e macchine fotografiche, borse e sciarpe, documenti e cappelli, perfino grucce, carrozzelle per disabili, passeggini dei bimbi. L’ultima domenica del mese, giorno straordinario di apertura fino a mezzogiorno, il pavimento restituisce un buon numero di portafogli, svuotati dei contanti. L’entrata gratuita e il pubblico particolarmente numeroso attirano giovani borseggiatori che tra la folla hanno vita facile. Ogni tanto sono individuati dai gendarmi e bloccati all’ingresso se la domenica del mese successivo provano a tentare di nuovo il colpo. Dicono i Sistini che non hanno mai trovato animali, neppure i piccioni, che vengono invece sorpresi a svolazzare tra le gallerie dei Musei quando qualche finestra rimane aperta. L’unica presenza documentata di un animale in Cappella risale al 1481 ed è quella di un cagnolino bianco, ritratto più volte dagli artisti chiamati da Sisto IV a decorare la fascia inferiore delle pareti con i fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Orecchie tese, pelo raso, collarino rosso, corre sui prati dipinti dal Perugino per la «Circoncisione di Mosè»; allunga una zampetta oltre il bordo della cornice nella scena di «Mosè che riceve le tavole della legge» realizzata da Cosimo Rosselli e Piero di Cosimo; scodinzola in piedi davanti alla tavola dell’«Ultima Cena», ancora del Rosselli; assiste al «Passaggio del Mar Rosso» di Biagio d’Antonio, ma voltando la testa dall’altra parte; viaggia tranquillo avvolto in una coperta sotto braccio a un bambino nelle «Prove di Mosè» di Sandro Botticelli. «Si suppone che questo cagnolino fosse la mascotte dei pittori e che corresse tra loro da una parte all’altra del lungo ponteggio dove lavoravano contemporaneamente, impegnati dal papa a terminare gli affreschi in pochi mesi», racconta Vittoria Cimino che tra il 1996 e il 2000 partecipò al restauro delle pitture sotto la guida di Maurizio De Luca. Spetta infine ai Sistini il compito di aprire e chiudere quattro delle cinque porte della Cappella (la quinta, da cui defluiscono i visitatori in direzione dei Musei, viene invece chiusa dai Clavigeri). Dopo l’ultimo giro di chiave, la navata vuota e silenziosa resta immersa nella luce crepuscolare diffusa dai faretti fissati fuori dalle finestre. C’è un film del 1997, intitolato «Will Hunting-Genio ribelle», in cui Robin Williams si rivolge al giovane imbranato Matt Damon: «Sai tutto su Michelangelo, come dipingeva, come discuteva con il papa, quali erano le sue tendenze sessuali. Ma se ti chiedessi che odore c’è nella Cappella Sistina non sapresti rispondermi, perché non sei mai stato a guardare il soffitto a testa in su per ore». Dicono i Sistini che l’odore cambia con le ore del giorno, con le stagioni, con la nazionalità dei visitatori e delle loro abitudini alimentari (sentore di aglio di francesi e coreani). Filippo Petrignani, che lavora all’Archivio fotografico e seguì i restauri degli affreschi michelangioleschi, è rimasto colpito dal profumo dei ceri, riaccesi dopo decenni il 31 ottobre scorso per la celebrazione dei Vespri in occasione del cinquecentesimo anniversario della Cappella. Vittoria Cimino è emozionata dalla fragranza degli incensi usati nelle celebrazioni liturgiche. A mezzanotte, quando l’aria depurata e climatizzata che entra dai bocchettoni alla base delle finestre è finalmente libera di correre e forma vortici intorno alle figure di Michelangelo facendo volare le vesti dei Profeti e strappando i capelli agli Ignudi, par di sentire l’odore che si respira la mattina in montagna, aprendo le finestre dopo una nevicata. Lauretta Colonnelli lcolonnelli@corriere.it