Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 24/12/2012, 24 dicembre 2012
ADESSO
si chiamano emoticon, smiley o anche faccette e li si data a trent’anni fa, nel 1982. Il mito fondativo viene ambientato alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh (Pennsylvania): il professor Scott Fahlman propose la sequenza :-) per marcare i messaggi scherzosi nelle bacheche elettroniche pre-Internet. La mancanza di segnali di ironia, infatti, aveva già creato diversi equivoci e risentimenti nell’informalità di quelle forme pionieristiche di scrittura.
Con l’introduzione di :-) e del suo contrario :-( il più era fatto: si era stabilito che il segnale dovesse arrivare dopo il messaggio, come accade con gli interrogativi e gli esclamativi (con l’importante eccezione spagnola) e si era trovata la convenzione della rotazione di novanta gradi del testo, o della testa (del lettore). In realtà ora esistono anche emoticon che non richiedono rotazioni, di provenienza sembra giapponesi: per significare "allegro" si fa così: (^-^).
Da lì le faccette si sono diffuse ovunque, la cosa è piaciuta molto: dal sorriso e dal broncio si è passati a rappresentare il pianto, la pernacchia, la vergogna, l’occhiolino, lo stupore, la perplessità, la noia, l’ira; quindi si è trovato l’equivalente di "cuore" (è questo: <3 e potrebbe valere anche per "cono gelato a due palle") e si è passati a oggetti e animali, su più righe e con uso di parecchio spazio. A quel livello di complessità l’emoticon è parte dell’"Arte ASCII" (dal nome dello standard di codifica dei caratteri).
Internet è piena di liste che spiegano il significato, spesso criptico, degli emoticon. Se da un lato i programmi di scrittura traducono automaticamente la sequenza di caratteri in un’icona vera e propria (per :-) il tipico sole che ride), a volte anche animata, e quindi di interpretazione più semplice, dall’altro lato la quantità di emoticon esistenti rende necessario avere prontuari che sciolgano i dubbi. Se qualcuno si rivolge a voi con l’emoticon del maiale :@) è il caso che lo sappiate.
Che gli emoticon prima o poi sarebbero stati inventati se lo era già immaginato Jean-Jacques Rousseau che, nel suo Saggio sull’origine delle lingue, lamentava l’assenza di un "punto vocativo" (per distinguere dai casi in cui si nomina qualcuno quelli in cui lo si chiama) e anche di un segno grafico per manifestare l’ironia "quando il tono della voce non la fa sentire". Più vicino, nel tempo, alla trovata di Fahlman, Vladimir Nabokov nel 1969 aveva dichiarato di sentire la mancanza di un segno di "sorriso", che si immaginava proprio come una parentesi "supina", per rispondere alla domanda di un intervistatore: "Quale posizione assegna a se stesso fra gli scrittori viventi e quelli del passato prossimo?". Rousseau aveva notato: "Dicendo tutto come se si scrivesse, non facciamo altro che leggere parlando". Bene, è proprio quanto faceva Nabokov, che si descriveva così: "Penso come un genio, scrivo come uno scrittore di prima scelta, parlo come un bambino", e infatti rilasciava interviste solo per iscritto (anche in tv! Costrinse Bernard Pivot a un’ora di intervista segretamente sceneggiata in anticipo).
Ma questo è anche l’esatto contrario di quanto facciamo noi, che scriviamo tutto come se lo dicessimo. Tramite gli emoticon e altri espedienti grafici cerchiamo di fare passare le nostre inflessioni di voce dalla tastiera. Cantiamo, e allora allunghiamo le vocali ("Caro aaaaamico ti scriiivooooo"). Urliamo, e allora SCRIVIAMO A TUTTE MAIUSCOLE aggiungendo una fila di esclamativi!!!!!! Ridiamo, e allora ricorriamo a un "gesto" alfabetico, la sigla LOL che sta per "Laughing Out Loud", "scoppiando a ridere". Gli emoticon si inseriscono in questa corrente di espressività grafica. Nei fumetti si usano da sempre teschi e fulmini per simboleggiare le imprecazioni e quando Tex fa a pugni può comparire un angioletto che suona l’arpa in un tripudio di uccellini attorno all’avversario knock-out. Ma anche nello scritto si sono sempre usati espedienti del genere. Chiunque si ricordi di aver ricevuto un proprio compito corretto dal professore ha ben presente le inequivocabili possibilità espressive insite nelle sottolineature, nei punti esclamativi o interrogativi raddoppiati o triplicati, nella profondità con cui la biro ha calcato le parole, segno dell’irritazione che prelude al votaccio.
Qualche anno prima che le bacheche elettroniche della Pennsylvania incominciassero a grondare di strane accozzaglie di simboli (da interpretare mettendosi storti come guardando coste di libri ritti sullo scaffale), negli zaini degli studenti italiani comparve un’agenda: la Smemoranda. Fra le ragioni del suo successo c’era certamente il fatto di avere le pagine a quadretti: si era liberi di scrivere ingrandendo o diminuendo i caratteri, le ragazze trasformavano in cuori i punti sulle i o in facce ridenti i tondi delle o, si alternavano pennarelli a colori diversi; tutta una micro-creatività verbovisiva, magari in parte già sperimentata nei tazebao o sui muri, trovava il suo supporto privato, giusto in tempo per i prossimi rintocchi del riflusso. A questo "scrivere disegnando" corrisponde poi, e da sempre, il "disegnare scrivendo" degli alfabeti figurati (nei capolettera dei manoscritti, per esempio), con lettere costituite da figurine di piante, animali, persone nelle più ingegnose posizioni (anche erotiche). Né va trascurata l’arte di compiere opere usando la macchina da scrivere, che ha probabilmente il suo supremo interprete italiano in Massimo Kaufmann: bellissimo il suo ritratto dattilografico di James Joyce.
L’emoticon semplice, invece, è ancora in equilibrio tra scrittura e figura: tende al geroglifico e alla scrittura pittografica ma ritorna subito al codice verbale: il suo compito è fare la parte della voce nel dare forza emotiva all’invarianza dei caratteri grafici. Compare in quelle zone di confine in cui si scrive come si parlerebbe, in cui occorre dare da vedere all’interlocutore il sorriso che, de visu, lo rassicurerebbe sulla benevolenza dei nostri scherzetti verbali. Un espediente umano, l’emoticon, alla fine dei conti.
(23 dicembre 2012)