Fabio Genovesi, Corriere della Sera 23/12/2012, 23 dicembre 2012
IO E IL NONNO AL TRAGUARDO CON PANTANI
Oggi è il 4 giugno 1998, ultima tappa di montagna al Giro d’Italia, e due sono le imprese che mi tengono in ansia: Pantani deve vincere il Giro, e mio nonno deve seguire la corsa senza morire. Ecco perché sono qua insieme a lui, altrimenti col cavolo che guardavo la tappa col nonno, che da vecchio appassionato non smette un secondo di infamare il ciclismo moderno: ogni azione coraggiosa non vale nulla in confronto alla fuga di 239 km al Giro del ’54, ogni salita è ridicola adesso che le strade sono asfaltate e le bici non pesano più come cancelli. Per lui i veri campioni si sono estinti, e al loro posto gareggiano corridori confezionati su misura per questi tempi prudenti e sfaticati.
Poi però c’è Marco Pantani. E mio nonno lo adora, Pantani. È il nipote che non ho, dice, e se ne frega se ci rimango male, è una passione così forte che non la può nascondere. Eppure negli ultimi giorni il Pirata ha fatto di tutto per spedire il nonno al cimitero. Gli ha mandato la pressione alle stelle attaccando sulla Marmolada, ha incendiato la corsa sul Sella, ogni giorno si inventa qualcosa per mettere in difficoltà gli avversari e il cuore del vecchio. Ma la resa dei conti è oggi, oggi sarà finalmente il trionfo oppure l’ennesima occasione persa per il nipote prediletto di mio nonno. Pantani lo sa, noi lo sappiamo, e in qualche modo lo sa pure mia nonna. Ecco perché sono qui, perché me l’ha ordinato lei: se oggi lasci il nonno da solo a guardare Pantani, poi se muore non piangere.
E allora eccomi sul divano insieme a lui, e giuro che ci provo a tenerlo tranquillo. Gli porto l’acqua se ha la gola secca, le gocce che lo calmano, nei momenti più caldi vorrei urlare ma mi trattengo e continuo a parlargli del tempo, di calcio, dei miei voti a scuola, argomenti che in genere lo fanno dormire. Solo che Pantani lavora contro di me, sull’ultima salita attacca a ripetizione, Tonkov gli rimane appiccicato alla ruota e tra i due nasce un duello che deciderà il Giro: la mia missione si fa disperata.
A ogni scatto del Pirata il nonno si aggrappa al divano e fa un verso di gola, tipo un pallone che si buca. Gli studio la faccia, gli chiedo se respira bene, lui risponde «abbastanza» e torna con gli occhi alla tv, dove anche Pantani vorrebbe studiare la faccia di Tonkov, ma non può. In un momento così delicato, qualsiasi gesto può sembrare un segno di debolezza, pure voltarsi a controllare l’avversario: ti volti perché hai paura che stia per scattare? Ti volti perché non ce la fai più? Nel dubbio semplicemente non ti volti, e continui a spingere.
Ma poi, dopo un tornante, il Pirata butta gli occhiali, butta il berretto, si toglie il brillantino che tiene al naso e butta pure quello. Sono pesi minimi, questione di grammi, ma quella di Pantani è la storia di una grandezza incommensurabile, dove le nostre misure e i nostri calcoli non funzionano. Come quando si ferma in mezzo a una corsa, scende dalla bici, alza o abbassa la sella di qualche millimetro e riparte. Pantani è così: chilometri di salita, ore di fatica e litri di sudore, e a preoccuparlo sono due millimetri in più nell’altezza della sella, sono i pochi grammi di una bandana o di un brillantino che getta via.
E infatti adesso è più leggero, si alza di nuovo sui pedali e piazza l’ennesimo scatto di giornata, ma stavolta c’è una differenza gigantesca: Tonkov non risponde. Il russo si pianta, fissa la strada con gli occhi spenti e si aggrappa al manubrio, mentre il vortice della sconfitta lo spazza via da questa storia.
«Eccoci! Eccoci!», urla il nonno, e mi dà un pugno sul ginocchio. Mancano solo 2 km al traguardo, ma anche questa è una misura che non funziona, e il Pirata ha davanti tutta la strada che gli serve per disegnare il trionfo. Perché in salita c’è una corda invisibile che tiene un ciclista appiccicato a quello davanti, una corda che è fatta di morale e fiducia, ma è molto corta, e quando la perdi non c’è più verso di recuperarla. Pochi centimetri di distacco diventano subito metri, diventano la vittoria che sparisce all’orizzonte.
E infatti, nell’inquadratura dopo, Tonkov non esiste più, c’è solo Pantani sui pedali che va a vincere il Giro. Il nonno urla qualcosa che non capisco, tenta di alzarsi ma non ce la fa, ricade di culo sul divano e io provo a bloccarlo, ma lui grida «Non respiro, lasciami, non respiro!», ci casco e lo lascio, lui scatta in piedi e saltella per il salotto, scuote i pugni nell’aria per stendere qualche nemico invisibile, poi si ferma e si tiene il petto.
Gli dico di stare calmo, che non deve agitarsi, ma ho la voce che trema per l’emozione. Lo stringo e cerco di farlo sedere, però lui pianta i piedi e resiste, mi agguanta per i fianchi, ci guardiamo negli occhi in quella posa strana e lì per lì sembra che stiamo per ballare un lento. Ma poi capisco che quello che sta succedendo è ancora più assurdo: per la prima volta nella storia, mio nonno mi sta abbracciando.
Sento il suo dopobarba alla lavanda, sento il calore di quella stretta, che forse è per Pantani e non per me, ma me la prendo lo stesso. E chi se ne frega di calmarlo, è una cosa impossibile, e soprattutto non è giusta. Lo stringo anch’io, e insieme cominciamo a urlare e saltare al ritmo di Pantani che si mangia i tornanti, di quella maglia gialla che taglia in due il mare dei tifosi e sale su. Pantani adesso non pedala, Pantani vola. Non è più legato alle regole della terra, noiose e piccine, niente più lo trattiene. E la smorfia di fatica che gli stava scolpita sulla faccia, nel momento in cui taglia il traguardo si trasforma in un sospiro lungo e profondo, che non sembra gioia, non sembra esultanza, e se proprio bisogna accostarlo a qualcosa, forse somiglia alla pace.
La stessa pace che provo adesso, quando ripenso a quel pomeriggio. Loro due, il nonno e il Pirata, non ci sono più, ma resta quella soddisfazione piena, quell’attimo immenso di giustizia che si prova quando i nostri sogni, i nostri desideri, trovano un varco nella muraglia della realtà e ci corrono incontro. Questo erano le vittorie di Pantani. Con lui non vinceva la nostra squadra, non vinceva lo sport e tantomeno l’Italia. Quando Pantani vinceva, in qualche modo vincevamo noi.
È così che cerco di spiegarmi la sua leggenda. Perché se invece ci provi coi dati e le misure non capisci niente. Se chiedi a chi crede nei numeri, ti dirà che il corridore Pantani Marco ha vinto poco in carriera. Un Giro, un Tour, un po’ di tappe prestigiose e qualche corsa minore. Quasi niente per un grande campione. Ci sono ciclisti che in quegli stessi anni hanno vinto il doppio, e il loro nome sopravvive solo come esotico nozionismo nella memoria degli appassionati. Il nome di Pantani invece regna ancora oggi, scritto in giallo, sulle strade del ciclismo: «Viva Marco», «Pantani sei grande», «Vai Pirata vinci per noi», mistiche incitazioni per una corsa che è finita per sempre eppure continua. Perché la sua storia è così, impossibile da incastrare negli spazi stretti della realtà, e in questo sta tutta la sua grandezza, in questo la sua tragedia.
Meraviglioso e incomprensibile, il Pirata era spinto da urgenze tutte sue, da una visione che tu non capivi ma che lui ha sempre avuto chiarissima in testa. Pantani nato sulla riva del mare, che si fa spiegare dal babbo come si arriva alle montagne e poi corre a pedalarci sopra. Pantani che lava la bici nella vasca da bagno, che se la porta in camera per dormirci insieme. Pantani che firma il primo contratto da professionista e si lamenta perché non ci sono clausole che prevedano sue vittorie al Giro e al Tour, il team manager che le aggiunge divertito e commenta «Ecco, sarai contento, hai fatto un affare», e Pantani che risponde «L’affare l’avete fatto voi».
E non c’è la minima presunzione, in questa frase presuntuosissima. C’è invece una visione limpida, c’è un appuntamento impossibile con la perfezione, la lotta dei sogni intorno agli scogli spietati della realtà.
Nel 1994 sarà il cofano di una jeep, che invade il percorso della Milano-Torino e lo investe. Frattura scomposta di tibia e perone, all’ospedale non si lotta per farlo tornare in corsa, ma per evitare l’amputazione della gamba. Eppure Pantani ricomincia a pedalare, con una gamba più corta, e nel 1997 sembra che il Giro possa finalmente essere suo. Ma la realtà torna a trovarlo, stavolta travestita da gatto. Gli attraversa la strada, lo fa picchiare contro l’asfalto e addio Giro. Corre il Tour, sì, e arriva terzo, ma il podio per lui non vale niente. Lui insegue la perfezione, e la perfezione di Pantani ha un nome semplice, si chiama 1998.
Nel 1998 il Giro è suo, dopo il duello che ha piegato Tonkov e ha quasi stroncato mio nonno. E nello stesso anno conquista il Tour, accoppiata riuscita solo a pochi fenomeni. Ma la grandezza non sta nella vittoria, la grandezza sta in come ci si arriva. E basta l’attacco sul Galibier a fare di Pantani un gigante del pedale.
Alla vigilia di quella tappa, il campione tedesco Ullrich ha tre minuti di vantaggio su di lui, che spera in un giorno torrido di sole per attaccare. Si sveglia, e la realtà gli offre pioggia, vento e ghiaccio. Ma lui attacca lo stesso. Sul Galibier, a 50 km dall’arrivo. La strada si impenna e il Pirata va, con le telecamere francesi che faticano a stargli dietro in un pomeriggio che sembra notte. Pantani è così, a un certo punto parte, non importa se a te non sembra il momento giusto o se la tattica lo sconsiglia. Per Pantani la corsa non è una competizione, la corsa è vita, e senza questi schizzi di energia non ha senso correre, non ha senso vivere.
Arriva in vetta e si butta nel fradicio della discesa, mentre il gigante Ullrich là dietro si sbriciola. Ullrich aveva piani, aveva tattiche, che adesso si perdono nella pioggia insieme al suo Tour. Taglierà il traguardo confuso e impaurito, come gli uomini primitivi davanti allo spettacolo furioso dei fulmini.
Ma come i fulmini, la perfezione di Pantani brilla solo per un attimo. Arriva nel 1998, e già l’anno dopo non c’è più. Pantani domina il Giro del 1999, vince tappa su tappa, spiana le salite e sfianca gli avversari. Ma poi arriva quel 2% di ematocrito oltre il limite, e per lui è la fine. Del Giro, ma anche di tutto il resto. Innocente o colpevole che sia, la sua visione, la sua perfezione, si spezzano quel giorno a Madonna di Campiglio. Molti sportivi sono incappati in scandali peggiori, hanno abbozzato qualche scusa, si sono fatti due ospitate in tv e poi di nuovo in gara. Ma Pantani è un’altra cosa, Pantani ha misure tutte sue. Una jeep che lo investe non è un problema, non lo fermano le cadute e gli incidenti meccanici. Anzi, servono solo a esaltare la sua avventura. Ma questo 2% è un macigno che lo schiaccia, e anche se a noi può sembrare un granello, quel granello inceppa per sempre il motore del Pirata. Potrebbe andare subito al Tour, vincerlo e zittire tutti. Però «qualcuno dubiterebbe ancora… quello che mi dà fastidio è che si mette in discussione tutto... hanno messo in discussione l’uomo».
E allora l’uomo si chiude nella casa dei genitori, smette di allenarsi, non esce più. «Sono ripartito dopo dei grossi incidenti, ma moralmente questa volta credo che abbiamo toccato il fondo», dice. E il giorno in cui decide di tornare in bici, la gioia dei suoi dura poco: mezz’ora e poi lo ritrovano sulle scale davanti all’ingresso, che piange: un’auto passando gli ha urlato «dopato».
È proprio questa l’ossessione che lo divora, l’idea di non poter più aprire in due il mare dei tifosi con quella forza, quella perfezione che per una brevissima stagione è stata sua. Ossessione rinforzata dai tanti processi, che invece delle montagne lo portano in giro per i tribunali di tutta Italia.
Tornerà a brillare al Tour del 2000, dove vince due frazioni, ma il Pirata più autentico è quello che infiamma la tappa in cui si ritira: è un giorno di montagne e nel pomeriggio si prevede spettacolo, ma in mattinata c’è un’edizione speciale del tg: Pantani è già all’attacco. Mancano 129 km all’arrivo, e lui è partito. Resta in fuga per 80, poi la troppa foga lo fa sbagliare, va in crisi di zuccheri e arriva distrutto tra gli ultimi, ma senza rimpianti: «qualcuno magari ha pensato a una tattica sicuramente folle, ma insomma, l’impresa è un’impresa», spiega, e in queste parole c’è il vero Pirata. Ma è solo un attimo sospeso, poi tutto riprende a crollare.
La procura di Forlì lo condanna a tre mesi, primo atleta in Italia a subire una condanna penale per frode sportiva. Poi una serie di assoluzioni e altre condanne, avvisi di garanzia che arrivano la vigilia di Natale, il Tour dei processi che non sembra finire mai. Ma non è solo questo a stroncarlo. Il fatto è che Pantani ha sempre vissuto seguendo la sua visione, e adesso che la sua visione si è spenta, il Pirata non ha più una rotta.
Si allontana dalla fidanzata, dalla famiglia e dal mondo. Resta solo coi suoi pensieri, che si attorcigliano tra loro e rimbombano nello stretto vuoto di un residence in bassa stagione. Impastati dalla cocaina, girano e girano nella sua testa e sporcano tutto. I pensieri sono come bandana e occhiali: non hanno peso eppure possono schiacciarti a terra. Solo che i pensieri non puoi prenderli e buttarli via, loro ti restano addosso, e qualsiasi cosa ti dicano, la dicono sempre più forte e sempre più strana, e non ti danno pace.
Quella pace che Pantani aveva in faccia sul traguardo di Montecampione, il giorno che si è lasciato alle spalle l’ombra di Tonkov e tutte le ombre del mondo. La pace che cercava coi suoi scatti improvvisi, per pedalare da solo verso un traguardo tutto suo. Il Pirata ha trionfato sulle strade d’Europa, ha sottomesso da dominatore le Alpi e i Pirenei, e adesso si perde a Rimini dentro una stanza in affitto. Adesso muore, nel giorno di San Valentino, a 34 anni, in un monolocale di 28 metri quadrati.
Ma questi sono numeri, sono misure, e in questa storia non contano niente. Conta solo quel momento travolgente, quello schizzo irresistibile che faceva urlare i telecronisti e impazzire i tifosi, e noi scattavamo in piedi e ci abbracciavamo e ci sentivamo tutti un po’ più vivi, perché il Pirata aveva deciso di alzarsi sui pedali, e andare.
Fabio Genovesi