Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 23 Domenica calendario

GOLDEN GATE, OTTANT’ANNI DI TERRORE

La vista, a settantacinque metri sopra il livello dell’acqua, è totale. A sinistra c’è Angel Island, poi l’isola grigia di Alcatraz — con il carcere in disuso che adesso è un museo — proprio di fronte, e Treasure Island — l’Isola del Tesoro — più lontano. In fondo, la terraferma. Le colline. San Francisco.
L’acqua, sotto, nei giorni di sole sembra blu come inchiostro. Quando c’è nebbia diventa grigia — grigio argento scintillante, grigio canna di fucile, grigio fumo di Londra, a seconda di quanta parte della luce brillante della California del Nord passi attraverso la foschia, che la raffredda e la diffonde come un riflettore.
La caduta, da settantacinque metri sopra il livello dell’acqua al punto di impatto, è lunga quattro secondi, a una velocità di circa centoventi chilometri all’ora. L’impatto, a quella velocità e contro il muro d’acqua, è fatale nel novanta per cento dei casi. Passando da centoventi km/h a zero in una frazione di secondo, gli organi interni hanno la tendenza — a causa dell’inerzia — a proseguire la corsa verso il basso, spappolandosi perché il resto del corpo si è fermato a zero km/h. Annegamento e ipotermia — l’acqua della baia è gelata, per chi sopravvive all’atterraggio — uccidono l’otto per cento di quelli che saltano giù.
I sopravvissuti alla caduta, il restante due per cento, hanno il 96 per cento di probabilità di perdere l’uso delle gambe. Una sopravvissuta, una sola, restò quasi illesa dopo la caduta. Un mese dopo, saltò una seconda volta. Aveva diciotto anni.
Da quando è cominciata la costruzione del Golden Gate Bridge, il 5 gennaio 1933 (fu inaugurato il 19 aprile del 1937) più di 1.200 persone si sono buttate nella baia volontariamente, senza contare gli operai morti durante i lavori e i bambini intrappolati in braccio ai genitori suicidi. C’è un suicidio ogni due settimane, gli allarmi — «codice 10-31» nel gergo del pronto intervento e dei guidatori di ambulanze — sono molto più frequenti. Dal momento in cui viene dato l’allarme — attaccati ai piloni del ponte ci sono telefoni collegati con il pronto intervento — due motoscafi della guardia costiera vengono mandati sotto il ponte per cercare di soccorrere chi salta (più realisticamente, a recuperarne i corpi prima che vengano portati via dalla corrente).
Il Golden Gate Bridge è una meraviglia dell’architettura mondiale e il luogo al mondo che registra il maggior numero di suicidi (chi pensa che il destino abbia un agghiacciante senso dello humour può trovare conferma alla sua opinione apprendendo che Joseph Strauss, l’ingegnere che costruì il Golden Gate, rispettando le scadenze e risparmiando più di un milione di dollari — di quei tempi — sui preventivi, diceva che sarebbe stato pressoché impossibile saltare in acqua, ma d’altronde aveva installato delle semplici reti di protezione che salvarono la vita a diciannove operai).
Il ponte dipinto di rosso — sbiadito dal sole e dalla salsedine e dal vento del Pacifico sembra arancione — per essere più visibile nei frequentissimi giorni nebbiosi è quello che gli americani chiamano un «landmark», uno dei luoghi simbolo della città e per estensione degli Stati Uniti, famoso come la Statua della Libertà e l’Empire State Building. Lawrence Ferlinghetti, il poeta che nella sua libreria City Lights accolse i colleghi della Beat Generation, una volta suggerì di dipingerlo tutto d’oro — Golden — per farlo splendere nella luce del mattino come suggerisce il suo nome.
«La luce mutevole di San Francisco — ha scritto Ferlinghetti in una sua famosa poesia, una delle più belle mai dedicate a una città — non è per niente simile alla luce della Costa Est/ Né a quella di Parigi, splendente di madreperla/ La luce di San Francisco/ È luce del mare/ Luce di isola/ E la luce della nebbia/ sopra le colline come una coperta/ Che scivola di notte/ attraverso il Golden Gate/ per posarsi sulla città all’alba/ E poi le tarde mattinate serene/ Dopo che la nebbia è stata bruciata dal sole/ che dipinge le case chiare/ con la luce del mare della Grecia/ e precise ombre pulite...».

Il simbolo della città è così, paradossalmente, nella sua bellezza accecante, anche il simbolo di una processione di fantasmi: per fermare quel flusso interminabile di suicidi, per archiviare gli allarmi «10-31» a caso rarissimo, basterebbe costruire delle protezioni. Protezioni che sono già state disegnate, sulla carta o meglio al computer. Costerebbero 40 milioni di dollari. E la vista dal ponte risulterebbe molto meno affascinante.
Ma in un Paese straordinariamente pragmatico come gli Stati Uniti, è inevitabile non ripensare a quello che disse nel 1953, vent’anni dopo la posa del primo pilastro (oggi per lo meno a causa del politically correct se non di una maggior civiltà, nessuno avrebbe il coraggio di ripeterlo a alta voce), un supervisore del comune di San Francisco: bocciò la proposta di una barriera anti-suicidi perché, spiegò tranquillo, era preferibile che se proprio qualcuno doveva suicidarsi lo facesse nella baia piuttosto che, saltando da un grattacielo del centro, precipitasse sui passanti.
Il dibattito cittadino continuerà anche dopo l’ottantesimo compleanno del ponte, del quale in città si parla soprattutto per le sei corsie di traffico quasi sempre bloccato, per il pedaggio astronomico. E non si parla mai — o quasi — di quella ricerca commissionata dall’università di Berkeley, al di là del ponte, che indagò su quel che era successo a 515 persone che erano state fermate sul punto di buttarsi dal Golden Gate. Venticinque anni dopo, il 94 per cento di quegli aspiranti suicidi erano ancora vivi, o se erano morti non era stato per suicidio. Per 485 di quelle 515 anime tormentate era, semplicemente e tragicamente, come si legge nello studio, «il Golden Gate o niente».
Rendere il ponte «a prova di suicidio» salverebbe dunque, secondo i sostenitori della necessità di installare le protezioni, letteralmente centinaia di vite. John Bateson, che ha dedicato la vita allo studio e alla prevenzione dei suicidi e ha pubblicato per la University of California Press un libro documentatissimo e spietato che si chiama The Final Leap: Suicide on the Golden Gate Bridge, è uno di coloro che restano convinti che un giorno le protezioni si faranno. Soltanto così, spiega Bateson, quel monumento all’architettura del Novecento e allo spirito pioneristico della California diventerà un «monumento alla compassione».
Anche nel cinema, l’immagine più famosa del ponte viene da La donna che visse due volte di Hitchcock: capolavoro di Eros e Thanatos il cui titolo originale è Vertigo, vertigine, con la protagonista condannata a cadere nel vuoto due volte. E in tanti altri film il Golden Gate è una scenografia per scene bizzarre: Roger Moore in Agente 007: Bersaglio mobile aggancia il pallone aerostatico del cattivone Christopher Walken a un pilastro del ponte; in Superman il povero Christopher Reeve prende al volo uno scuolabus carico di bambini che sta per precipitare nella baia; in X-Men - Conflitto finale il ponte ospita una parata di mutanti; Hulk, braccato, ci saltava sopra, nel film omonimo, colpito — perfino lui, nella sua furia — dal panorama. La bellezza, scriveva Rainer Maria Rilke, non è altro che l’inizio del terrore.
Matteo Persivale