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 2012  dicembre 23 Domenica calendario

GIULIO PAOLINI: PREFERIREI NON ESSERCI

Buio. Il sipario cala. Spettacolo finito. A volte, alcuni attori avvertono il desiderio di uscire di scena. Dismettono i loro abiti. Si struccano. Non si riconoscono più nei ruoli che i registi hanno loro assegnato. In un’analoga condizione si trova Giulio Paolini. Tra le personalità più rigorose dell’arte italiana del secondo Novecento, spesso «catalogato» tra gli animatori dell’Arte Povera e del concettualismo. In effetti, egli è un isolato, distante da gruppi e da tendenze. Che, nel tempo, è diventato sempre più solitario. Come rivela un suo recente libro, L’autore che credeva di esistere (Johan&Levi). Un ambizioso trattato estetico, che ha il valore di un approdo definitivo. Un bilancio teorico, che suona come un punto di arrivo. Forse, un testamento. Ma, innanzitutto, una sorta di valzer degli addii. Che evoca una condizione di disagio intellettuale e morale. E che muove da una frase di Bartleby, il protagonista del racconto di Melville: «I would prefer not to».
Dunque, Paolini smette di fare l’artista? Non proprio, come egli stesso ci dice in questa conversazione, dopo aver superato iniziali esitazioni e prudenze. Varcata la soglia dei settant’anni, si sente disincantato, disilluso. Confessa la sua difficoltà a rincorrere la cronaca: «Nel presente riterrei igienico e salutare essere assente». Non si riconosce in quello che la sociologa Nathalie Heinich ha chiamato il «paradigma contemporaneo», segnato dall’urgenza di trasgredire, di scandalizzare, di oltrepassare limiti, di violare la specificità dei generi, adeguandosi ai modi della pubblicità e dei media. Giudica inconsistenti molti azzardi dell’arte di oggi.
Dinanzi a questo declino, cosa fare? Non ci sono alternative, secondo Paolini. Per lui, è «diabolica la diffusa avidità dell’esserci». Proprio perciò occorre uscire di scena. Abbandonarsi all’«astinenza», a una feconda «inattività». Abdicare. Ritrarsi. Sottrarsi ai riti del sistema. Consegnarsi alla strategia della discrezione: non esprimersi più, non pronunciare più parole. Rifugiarsi dentro il tempio del silenzio, dove non entrano più le voci dell’attualità. Smetterla di continuare a discutere di mercato o di valutazioni. L’artista, dice Paolini, deve «rinunciare al suo nome e alla proposta indecente dell’amplificazione sociale del suo ruolo». Liberare il linguaggio dalla «sottomissione» a «essere operativo, funzionale, transitivo». Non comunicare più qualcosa, né praticare discorsi diretti. «È eretico sostenere che un artista debba trasmettere qualcosa di sé o del contesto al quale crede e dichiara di appartenere». La sfida: marcare una distanza dal mondo. Pensare lo stile come un’esperienza anti-politica, anti-ideologica, anti-militante. «È necessario prendere distanza da tutto o quasi. Un limite invalicabile deve separare l’arte dal reale», precisa Paolini.
Effimero inseguire le oscillazioni del gusto e il fantasma della moda che, come ha scritto Walter Benjamin, indica «di volta in volta il parametro più aggiornato dell’immedesimazione». Altrettanto effimero assecondare le vuote spettacolarizzazioni e le provocazioni tardo-avanguardistiche. L’arte ha un’unica missione: spingersi verso una dimensione intemporale, metafisica. «Del resto, l’arte autentica non ha tempo ed è sempre, da sempre, presente. Resta uguale a se stessa, a qualsiasi epoca appartenga e a qualsiasi latitudine si ritrovi».
In una fase dominata dalle contaminazioni tra i media, Paolini invita a riscoprire la bellezza del «proprio» dell’arte. Si descrive non come un esploratore alla ricerca di effetti speciali, ma come un archeologo «intento a scavare nel sottosuolo senza altre aspettative che non siano quelle di poter insistere nel suo fare e disfare». Considera il suo mestiere come disciplina fondata non sul creare dal niente, ma sul «ritrovare»: ovvero, sul bisogno di misurarsi in maniera problematica e inquieta con la Storia. Sceglie di attraversare ininterrottamente le stanze di un ampio Museo Immaginario, recuperando suggestioni e motivi. «Oggi i musei sono diventati luoghi d’intrattenimento domenicale, asili nido per famiglie. Ma conservano un fascino. Ne ho un’idea instabile e contraddittoria. Credo che ciascuno di noi custodisca dentro di sé una galleria ideale».
Guidato da queste convinzioni, Paolini, come aveva già colto Italo Calvino in un testo del 1975, con sapienza si porta al di là di ogni tentazione letteraria o descrittiva. Impegnato a interrogarsi sulle ragioni stesse del suo fare, rifiuta ogni invadenza di tipo soggettivistico. Non evoca mai i continenti dell’esteriorità o quelli dell’interiorità. Evita ogni testimonianza privata. Animato da una tensione analitica, studia i modi della visione e quelli della percezione. Le sue opere, osservava Calvino, si dispongono in una regione mentale, mostrando «le materie prime di cui sono composte, tela, legno, carta, colori di produzione industriale, articoli che si comprano nei negozi di forniture». Si tratta di opere che «occupano lo spazio che altrimenti sarebbe occupato da un quadro, e non vogliono far pensare ad altra cosa che ai quadri». A governare questo lessico è la figura della «squadratura», che è fonte di ogni invenzione: origine e destino.
Ci troviamo di fronte a una grammatica che ha eleganza neoclassica e pitagorico ascetismo. E si impone, come ricordava Giuliano Briganti, per un intenso «senso di purezza atmosferica, di rarefazione, di incorporea leggerezza». Una sintassi colta, sorretta da una costante frequentazione dei modelli della storia dell’arte, nella quale si rimodula un vasto archivio di tracce: busti, tele, cavalletti, cornici. Elementi che vengono acquisiti e, subito, decontestualizzati.
Il classico è il modello di riferimento. Non viene replicato, né profanato o sbeffeggiato. «Come si fa a sottoscrivere o a liquidare in modo perentorio un codice o un altro? Classico è per definizione qualcosa che si attesta da sé, con autorevole discrezione. Suggerisce una memoria infallibile, anche se inconsapevole».
Peintre philosophe, pittore filosofo, Paolini si appropria di motivi della statuaria greca e romana. Allestisce un ricco sillabario di citazioni del passato. Ma non compie mai un’azione anacronistica. Sulle orme della lezione di De Chirico, viola la purezza dell’antichità, riducendola a brandelli, simili a relitti abbandonati su una spiaggia. Allude sempre al crollo di mondi, a imperi in frantumi, a simmetrie violate. Effettua prelievi e tradimenti, intrecciando armonia e disarmonia: ordine e negazione dell’ordine stesso. Salda la dimensione apollinea con lo slancio dionisiaco. Salvaguarda la «divina proporzione», per poi infrangerla. Incurante dell’omogeneità della forma, estrae parti dall’insieme. Scompone le regole della pittura in sequenze di unità finite, costanti ed elementari, dotate di autonomia linguistica.
In particolare, è notevole la seduzione delle rovine. Pleasure of Ruins, Taste and the Antique, Ruines Italiennes... «Sono alcuni tra i titoli dei libri che ho allineato sugli scaffali della mia libreria. Lavorare con le rovine, per me, è un modo per indugiare sui vuoti, sugli intervalli», dice Paolini. Che, nei suoi montaggi iconografici, assembla frammenti, dettagli. Incurante dell’omogeneità della forma, affascinato dal non-finito, compone nature morte caotiche. Come un regesto. Un «catalogo di apparizioni», sfiorato dal «peso del tempo». Un’apocalisse silente. Ancora il silenzio. Che, per Paolini, non è più solo il luogo verso cui tendono le sue opere. Ora è anche mèta esistenziale. Eppure, permangono echi e tentazioni.
Paolini si prepara a due importanti eventi: sarà tra i protagonisti del Padiglione Italia della prossima Biennale e gli sarà dedicata una grande personale al Macro di Roma. Un modo per tornare in scena? Del resto, si sa: spesso i grandi attori non riescono a fare a meno del teatro. «Ma no... Più che di ambite consacrazioni, credo che si tratti solo di piacevoli e provvidenziali passatempi».
Vincenzo Trione