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 2012  dicembre 23 Domenica calendario

I 10 ANIMALI MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: L’ARCA DI NOE’ - F

eroci, addestrati, casalinghi, minuscoli o giganteschi. Stanno negli zoo, nelle fattorie degli animali che rispecchiano società totalitarie, nei mari o nelle foreste. Qualcuno fieramente si oppone agli umani cacciatori. Altri si caricano di messaggi che sfuggono alla zoologia. Singoli o in branchi — le coppie vanno poco — sono pronti per l’imbarco sull’Arca di Noè della letteratura. Più affollata della scialuppa dove il giovane indiano — nel romanzo di Yann Martel Vita di Pi (ristampato da Piemme in contemporanea con l’uscita del film di Ang Lee) — deve vedersela con una tigre del Bengala di nome Richard Parker. Una scimmia, una zebra malmessa e una iena sono il primo pasto del clandestino.
Herman Melville, «Moby Dick»
«Questa non è una favola mostruosa o, cosa peggiore e più detestabile, un’odiosa e intollerabile allegoria». Per bocca di Ishmael (nome di fantasia, lo sappiamo dalla prima riga, in verità preceduta da un centinaio di citazioni sui cetacei), Melville stabilisce che la balena è una balena. Non sta per qualcos’altro. Ed è un tema adatto a «essere tirato per le lunghe». Da qui i capitoli sui fossili, sulla ricchezza procurata dalle balene, sugli spermaceti, sullo spruzzo, sulle tecniche di arpionamento, sulla morfologia. Saltarli — dedicandosi solo all’avventura del Capitano Achab — sarebbe un delitto.
«Ci sono in tutto più di quaranta vertebre, che nello scheletro non sono attaccate insieme. Stanno come i grossi blocchi bitorzoluti di una guglia gotica, e formano robusti strati di pesante muratura. La più grande è larga poco meno di tre piedi, e alta più di quattro. La più piccola, dove la spina si affusola nella coda, è larga appena due pollici, di aspetto simile a una bianca palla da biliardo. Alcuni mi dissero che ce n’erano di ancora più piccole, ma erano state disperse da certi monelli cannibali, figli del sacerdote, che le avevano sottratte per giocarci alle biglie».
William Faulkner, «L’orso»
Sedici anni, e già sei trascorsi andando a caccia, scrive Faulkner, «ascoltando i più bei discorsi possibili»: sulla grande foresta, sui cani, sui cervi, sul grande orso con una zampa rovinata da una trappola. Chiacchiere da maschi cacciatori, in attesa del rito di passaggio.
«Ormai conosceva l’impronta del vecchio orso meglio della propria, e non solo quella deforme. Poteva vedere la traccia di una qualsiasi delle zampe sane e distinguerla subito dalle altre, e non solo per via della misura. C’erano altri orsi nel raggio di un’ottantina di chilometri che lasciavano tracce quasi altrettanto grandi, o almeno così simili che soltanto per giustapposizione sarebbe risultato quale era la più grande. Ma c’era qualcosa di più. Se Sam Fathers era stato il suo mentore e i conigli domestici e gli scoiattoli il suo giardino d’infanzia, allora la foresta che il vecchio orso percorreva era la sua università».
In un romanzo della canadese Marian Engel — uscito nel 1976 a femminismo imperante — un orso liberato dalle catene fa compagnia a Lou, annoiata archivista in trasferta. In una casa isolata sulle rive di un lago, rivive la fiaba della Bella e la Bestia. «L’orso ondeggiò, guardandola alla ricerca di un incoraggiamento. Lou si avvicinò e gli prese le zampe tra le mani, poi con le dita intrecciate a quegli artigli grossi come ferri da calza, cominciò a ondeggiare contro il suo corpo al ritmo della musica».
Franz Kafka, «La metamorfosi»
Solo un entomologo (e un critico sfacciato) come Vladimir Nabokov poteva osare. Lo scarafaggio di Kafka — il viaggiatore di commercio Gregor Samsa, prima del terribile risveglio dopo una notte di sonno agitato — non è uno scarafaggio. «Uno scarafaggio è un insetto di forma piatta con grosse zampe, e Gregor è tutto fuorché piatto: è convesso da entrambe le parti, ventre e schiena, e ha le gambe piccole. È simile a uno scarafaggio solo per un aspetto: la colorazione bruna. Niente altro. A parte questo, ha un enorme ventre convesso diviso in segmenti e una solida schiena arrotondata che fa pensare alle elitre. Nei coleotteri queste elitre nascondono piccole fragili ali che possono allargarsi e portare l’insetto per chilometri in un volo brancolante. Curiosamente, Gregor coleottero non si accorge mai di avere le ali sotto il solido rivestimento del suo dorso».
Kafka lo aveva descritto così, nel suo lettuccio. «Sdraiato sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si aprivano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza impressionante».
Ernest Hemingway,
«Il vecchio e il mare»
Il macho Hemingway offre marlin, tori da combattimento, e uno squalo che contende al vecchio marinaio la preda ormai all’amo da giorni: 5 metri e mezzo di pesce con striature viola, cocciuto quanto il pescatore. Il pescecane si mette di mezzo.
«La testa del pescecane era fuori dall’acqua e la schiena ne sporgeva, e il vecchio udì il rumore della carne che si lacerava, quando scagliò la fiocina in un punto in cui la linea degli occhi si intersecava con la linea che gli saliva dal muso. Queste due linee non esistevano. Esisteva soltanto la pesante affilata testa azzurra e i grandi occhi e le tintinnanti mascelle sporgenti che inghiottivano ogni cosa. Ma quello era il punto in cui si trovava il cervello e il vecchio lo colpì. Lo colpì con le sanguinanti mani molli, lanciando una buona fiocina con tutta la sua forza. Colpì senza speranza ma con decisione e totale malevolenza».
Daphne du Maurier, «Gli uccelli»
Alfred Hitchcock li ha resi celebri. Erano già spaventosi nel racconto della scrittrice inglese che fornirà al regista anche Miss Danvers, la sinistra governante di Rebecca (sua anche la trama di A Venezia... un dicembre rosso shocking, diretto nel 1973 da Nicholas Roeg).
«Coprendosi la testa con le braccia corse verso il cottage. Dall’aria continuavano a scendere su di lui, senza altro rumore che lo sbattere di ali. Si sentiva il sangue sulle mani, ai polsi, nel collo, ogni colpo di becco gli lacerava la carne. Se almeno fosse riuscito a salvare gli occhi. Era la cosa più importante. Tenerli lontani dagli occhi. Non avevano ancora imparato ad aggrapparsi a una spalla, a strappare gli abiti, a piombare in massa sulla testa e sul corpo. Ma a ogni tuffo, a ogni assalto si facevano più audaci. E non si risparmiavano. Quando si lanciavano e mancavano il bersaglio si sfracellavano al suolo. Correndo, inciampava nei loro corpi senza vita».
Murakami Haruki,
«Kafka sulla spiaggia»
Un titolo come L’uccello che girava le viti del mondo scatena la fantasia. Fino a che non leggiamo il romanzo: si tratta di una gazza ladra, con riferimento all’opera di Gioacchino Rossini. Nel mondo di Murakami — lo scrittore ne ha uno tutto suo, fascinoso e a tratti irritante, basta leggere 1Q84 — gli elefanti scompaiono, i canguri fanno diventare grafomane l’impiegato di un magazzino merci, i vecchi parlano la lingua dei gatti, i pesci piovono dal cielo.
«Tutt’a un tratto, senza il minimo preavviso, circa diecimila pesci precipitarono dalle nuvole. La maggior parte a causa dell’impatto con il suolo si sfracellò, ma alcuni pesci rimasero in vita e li si vide guizzare per terra nelle vie più affollate di negozi. Sembravano freschi, e odoravano ancora di mare. Abbattendosi sulle persone, sulle automobili e sui tetti facevano un gran rumore, ma evidentemente non cadevano da un punto molto alto del cielo, perché fortunatamente nessuno riportò ferite serie. Fu molto più forte il trauma psicologico».
Rudyard Kipling,
«Il libro della giungla»
Babbo Lupo, Mamma Lupa, la pantera Bagheera, la tigre Shere Khan sono vecchie conoscenze. L’occhio e la prosa dello scrittore britannico più strapazzato in nome della correttezza politica non dimenticano l’Impresentabile della giungla.
«Era lo sciacallo, Tabaqui, il Leccapiatti, e i lupi indiani sprezzano Tabaqui perché va in giro a seminar zizzania, e a malignare, e pascersi di stracci e di cuoiame dai mucchi di rifiuti dei villaggi. Ma ne hanno anche paura perché, più di chiunque altro nella giungla, Tabaqui va soggetto alla pazzia, e allora dimentica che ha sempre avuto paura di chiunque, e scorrazza per la foresta azzannando tutto quel che gli capita a tiro».
T. S. Eliot,
«Il libro dei gatti tuttofare»
Scriveva La terra desolata, minacciava «in una manciata di polvere vi mostrerò lo spavento»: però nel tempo libero scriveva lettere all’adorato Groucho Marx e metteva in rima i mici. «Questo tipo di gatto un po’ eccentrico e strano/ che è sempre meglio prender con le molle/ se gli offrite una rosa vorrebbe un tulipano/ Se ripiegate su un pollo vorrebbe un fagiano/ e se gli date un letto per panciolle/ ecco che lui preferisce un divano/ però la cosa assurda/ di questo assurdo gatto/ è che vi chiede un topo e poi vorrebbe un ratto».
Per i roditori, c’è solo l’imbarazzo della scelta: uccisi dalla carezza di un idiota in Uomini e topi di John Steinbeck, contagiosi e mortiferi in La peste di Albert Camus, sterminati dai gatti nazisti nel fumetto Maus di Art Spiegelman.
Edgar Allan Poe, «Ligeia»
Un gatto nero murato vivo nel camino assieme alla vittima di un uxoricidio. Un orangutan assassino sfuggito al marinaio che lo ha in custodia. Un corvo che sinistro ripete «Mai più». Il bestiario di Edgar Allan Poe terrorizza quanto i suoi racconti. Nessuno batte il Verme Conquistatore, nella poesia composta dall’amatissima Ligeia, ormai moribonda. Siamo a teatro, o almeno così sembra. «Le luci, tutte le luci si spengono!/ Su tutto quel che ancora si muove,/ come un drappo funebre,/ il sipario precipita con furia di uragano/ e gli angeli pallidi ed esangui,/ alzandosi e levandosi i veli, dicono/ che la tragedia in scena si intitola L’uomo/ e l’eroe è il Verme Conquistatore».
Jack London, «Zanna bianca»
Abbiamo cominciato con una tigre che porta un nome da cristiano, finiamo con un cucciolo di lupo che farebbe la sua figura in un salotto intellettuale.
«Se avesse pensato come pensa l’uomo, il lupetto avrebbe pensato alla sua vita come a un vorace appetito, e il mondo come un luogo in cui infuriavano una quantità di appetiti — inseguire ed essere inseguiti, cacciare ed essere cacciati, mangiare ed essere mangiati — tutti mescolati in un disordine violento e cieco, un caos di avidità e di carneficina regolato dal caso, spietato, capriccioso e senza fine. Ma il lupetto non guardava alle cose in grande e dall’alto: aveva un solo scopo, e accoglieva un solo pensiero o desiderio per volta. Oltre la legge della carne, c’era una miriade di altre leggi minori che bisognava imparare e obbedire. Il mondo era pieno di sorprese: il fremito della vita che era in lui, il giuoco dei suoi muscoli erano una felicità senza fine; inseguire la carne voleva dire brividi di esultanza; le sue collere, le sue battaglie erano piaceri per lui; lo spavento stesso, e il mistero dell’ignoto, arricchivano la sua vita».
Mariarosa Mancuso