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 2012  dicembre 23 Domenica calendario

SI BEVE (TANTO) PER SCORDARE LA VECCHIAIA

Dopo tanti anni di assenza, e dopo Martin Amis, il ritorno di Kingsley, il padre, è un vero grattacapo. Chi si ricordava di lui? Parlo dell’Italia. In Inghilterra non so, tendo a credere sia considerato un piccolo classico. Kingsley torna con Vecchi diavoli, un romanzo del 1986 (vincitore del Booker Prize), che in Esperienza il figlio giudica, dopo l’Ulisse, il più bello del XX secolo. A priori è un giudizio implausibile, sia per gli altri autori che vengono in mente, sia perché a emetterlo è il figlio. Ma, scartati questi preliminari, un libro di Kingsley lo si apre con raddoppiata curiosità. Ricordo il suo primo romanzo, Lucky Jim del 1954. Ne rammento l’ambiente universitario nel quale si svolge la vicenda e il modo in cui è scritto, come fosse approssimativo. C’era anche (quando l’autore lo pubblicò aveva trentadue anni) un quid di generica ribellione nei confronti di un modo di vivere formale e repressivo. La ribellione di Jim Dixon, professore di storia medievale, è ciò che fece di Amis un rappresentante degli «angry young men»: nessuna vera parentela, tra di loro, se non che mezzo secolo fa, dopo la guerra, vi era negli scrittori una necessità di rinnovamento e un certo spirito di fraternità. Ma, manco a dirlo, al pari di Osborne, o Sillitoe, o dello stesso Pinter, Amis è uno scrittore (un uomo) con spiccato spirito individualista, il cui individualismo si manifesta come satira del mondo in cui vive e come caratteristica dei personaggi che torneranno nei diversi romanzi.
In Jim Dixon non vi è una vera intenzionalità, vi sono impulsi che egli non corregge e che spesso si tramutano in gaffes. Questa inclinazione è così netta che nel secondo romanzo, Quell’incerto sentimento, il bibliotecario John Lewis delle gaffes è un principe. Cito, tra tutte, una scena ai limiti del realismo in cui, innamorato di Elizabeth, John fugge dalla casa coniugale di costei travestito da donna, dopo essersi ficcato sotto il divano. Dicevo: ai limiti del realismo. Siamo in una dimensione grottesca, o comica da film muto, insomma oltre la pura satira — dal momento che tutto è scritto, prima che contro gli altri, contro di sé (John Lewis racconta in prima persona). Qui Amis approda alla sua vena profonda: nel racconto vi sono scherno, vilipendio, risentimento, rancore e, appunto, rabbia. La leggenda lo tramanda come un conservatore, un nemico della cultura popolare, dell’emancipazione femminile, della normale convivenza con i neri o gli orientali. C’è del vero, naturalmente. Ma basterà pensare a un libro come Nuove mappe dell’inferno, uno dei primi saggi seri e appassionati sulla narrativa fantascientifica; o al suo culto per il jazz: i nomi di grandi jazzisti tornano in più d’un romanzo.
Il punto è un altro, ed è spudoratamente, tremendamente inglese (almeno quanto il suo opposto): il rifiuto del modernismo, con ciò che implicava o di cui era effetto. In Kingsley Amis il nome di Fielding ricorre spesso — come, del resto, quello di altri autori che amava, da Graham Greene a Evelyn Waugh, e perfino Henry James. Dell’antimodernismo di Amis troviamo eloquente traccia in Quell’incerto sentimento, quando il bibliotecario deride il dramma in versi di un altro personaggio (e pensiamo subito a Eliot). Egli dice, per completare il quadro, anzi per metterlo nella sua reale cornice: in quel dramma «vi erano vari indizi verbali che mi permettevano di arguire con una certa sicurezza che l’intera faccenda dava un po’ nel simbolico. Parole come "morte", "vita", "amore", "uomo" spuntavano fuori ogni due o tre versi senza mai riferirsi a nulla di concreto o di specifico».
Lo specifico e il concreto in Vecchi diavoli, per venire al nostro libro, consistono in una tanto poderosa quanto sfibrata orchestrazione/rappresentazione di un gruppo sociale che, a differenza dei romanzi precedenti, non ha figure significative del mondo culturale, con l’eccezione di Alun Weaver, un vecchio poeta che vive nel culto di un altro poeta, gallese come lui. Centro (tematico) del romanzo è proprio il Galles: a Swansee Amis aveva insegnato prima di abbandonare la carriera universitaria. Il Galles è il centro tematico di Vecchi diavoli nel senso che ricorre in modo ossessivo come punto dolente, come mania persecutoria, come entità da ripudiare e che tuttavia non si può abbandonare. Nessuno dei dodici (sei coppie) protagonisti smette di pensarvi, di vederne le tracce, di citarlo — alla lunga, per il lettore, in modo fastidioso.
Questo culto della minorità, o della particolarità che in altra visione (penso a Deleuze) avrebbe acquistato tutt’altro senso, in Amis è una rivendicazione saturante, stucchevole e messa alla berlina. L’opposto, comunque, che una visione reazionaria. D’altra parte il Galles (presente in altri romanzi) è tutto ciò che Londra non è: è ritorno a casa e refugium peccatorum, là dove ci si ritira per espiare i peccati di ambizione e di desiderio. Tra tutti e dodici i personaggi, gente ben oltre i sessant’anni, Alun è l’unico che manifesta segni di vitalità sessuale, con la moglie e con una amante del tempo remoto. Sarà anche l’unico a scomparire, per un infarto. Gli altri si limitano a bere: ogni tipo di bevanda, dalle truci alle raffinate, è l’unica occupazione di tutti.
Si beve, in Vecchi diavoli, come in nessun altro libro, tranne Sotto il vulcano (ma lì era uno, qui sono tanti). Si beve e ci si preoccupa della propria salute: in specie (negli uomini) della incipiente grassezza, che era un problema già in Perché resti con Bang? A guardare le foto di Kingsley, come non notare che bell’uomo era a trent’anni e come, dolce ma un po’ sfigurato, è a sessanta e a settanta? Nella scrittura (nello stile) c’è un passaggio dalla volontaria malagrazia dei primi anni al lasciarsi andare: un irritante, impacciato, commovente dispendio di sé. Amis procede in modo lento e ripetitivo, per esempio nei dialoghi, quasi compiacendosi della futilità di cui fatalmente, inesorabilmente si nutre la letteratura dedicata alla vecchiaia, ultimo sfregio d’una vita da sempre osteggiata.
Franco Cordelli