Stefano Montefiori, la Lettura (Corriere della Sera) 23/12/2012, 23 dicembre 2012
HOUELLEBECQ. TORNO ALLA POESIA, HO SCOPERTO IL SORRISO
Anni di esilio in Irlanda, lunghi soggiorni in Spagna, e adesso che altre celebrità come Gérard Depardieu fuggono dalla Francia e dalle sue tasse, Michel Houellebecq torna a vivere a Parigi. Non per dare una mano patriottica al potere socialista in difficoltà: «Non ho alcuna fiducia in François Hollande», chiarisce nel camerino della Bibliothèque nationale de France. Il motivo del ritorno è personale: «Avevo voglia di parlare francese nella vita di tutti i giorni, e ho raggiunto un livello di inglese sufficiente. Torno in Francia non per militantismo». Incontriamo Houellebecq pochi minuti dopo il dibattito con Catherine Millet per i quarant’anni della rivista «Art Press»: già scrittore pagato come un divo (Arnaud Lagardère sborsò oltre un milione di euro per portarlo, il tempo di un solo romanzo, a Fayard), finalmente consacrato da un premio Goncourt (2010), a 56 anni Houellebecq ricomincia dagli inizi: la Francia, la poesia.
«Il mio prossimo libro uscirà a primavera e sarà una raccolta in versi. È quasi finito, un centinaio di pagine. Da oltre dieci anni non pubblicavo poesie», racconta dopo un paio di sigarette fumate di nascosto, in bagno, ridendo con l’editore. Un nuovo addio al romanzo, dopo quello di Philip Roth? «No, niente di definitivo, non so che cosa farò in futuro. J. M. Coetzee una volta ha detto una cosa molto giusta, e cioè che scrivere un romanzo è come essere Atlante che porta sulle spalle il mondo. Lui, a 72 anni, non ha più la forza, si sente troppo vecchio. Forse per Philip Roth è lo stesso, probabilmente capiterà anche a me. Ma certo il romanzo non è morto, non è quello il punto. Semplicemente, bisogna avere una grande energia per affrontarlo».
Dopo La Carta e il Territorio (edito in Italia da Bompiani), Houellebecq era sparito: un allontanamento dal mondo diventato un po’ più preoccupante del solito quando un anno fa non si è presentato agli appuntamenti per la promozione del romanzo in edizione nederlandese all’Aia, Amsterdam e Bruxelles. Lo aspettavano, non è mai arrivato. Panico a Parigi, voci di rapimento, poi l’allarme è rientrato: stava bene, senza telefonino né email, nell’amato Sud della Spagna. Che ha fatto in tutti questi mesi? «Ho viaggiato, scattato fotografie, scritto».
Michel Houellebecq, extraterrestre planato sulle lettere francesi quasi vent’anni fa, sorta di scrittore rockstar e per questo amato e odiato, curioso caso di autore di nicchia che diventa popolare fino a vendere milioni di copie in tutto il mondo, ricompare senza l’amato giaccone parka, la sua uniforme degli ultimi anni. Posa il bicchiere di champagne e si siede vicino allo specchio, per parlare dei suoi nuovi versi.
«Piccoli poemi desolati», così li definisce. «Affronto i miei temi consueti, la sofferenza, la solitudine. Alcune sono poesie scritte tempo fa, che non ho mai pubblicato perché non si inserivano bene nelle precedenti raccolte. Ma il motivo per cui ho deciso di uscire presto con un libro è che la maggior parte sono componimenti nuovi. Versi più corti che d’abitudine. Scritti un po’ ovunque, a Parigi, durante il mio lungo viaggio in auto attraverso la Francia, o in Irlanda. Richiedono meno lavoro rispetto ai romanzi, e cambia anche la lettura. Non c’è un ordine».
Il manifesto poetico di Michel Houellebecq era finora racchiuso nei versi di Rester vivant (uscito in Italia come La ricerca della felicità), scritti agli esordi: «Coltivare l’odio di sé. Odio di sé, disprezzo degli altri. Odio degli altri, disprezzo di sé. Mescolare tutto. Fare la sintesi. Imparare a diventare poeta è disimparare a vivere».
Eppure il poeta che ci sta davanti adesso, al contrario, sembrerebbe avere imparato il mestiere dell’esistenza. È riemerso dall’ultima delle sue periodiche fasi di reclusione, torna nel suo Paese, si stabilisce in una casa con vista sui tetti e il cielo di Parigi, tratta gli interlocutori con affetto. Per uno che ha scritto «Il mondo è una sofferenza dispiegata», oppure «Il nulla vibra di dolore, fino a pervenire all’essere in un abietto parossismo», Michel Houellebecq oggi è un uomo che sorride spesso.
Se ne è accorta anche Catherine Millet, la fondatrice di «Art Press» e inattesa scrittrice di bestseller (La vita sessuale di Catherine M., edito in Italia da Mondadori, ha venduto in dieci anni due milioni e mezzo di copie), che presenta un’anteprima di dieci minuti del film sceneggiato da Houellebecq e tratto dai versi di Rester vivant, pieno di testimonianze di persone che dicono di «sopravvivere invece che vivere». «Lei sembra pieno di compassione — dice la Millet —. E pensare che si era fatto una fama da cattivo».
«Asociale sì, cattivo no — precisa Houellebecq —. La compassione è ciò che mi fa scrivere, e che mi avrebbe reso un buon psichiatra. Le persone si confidano moltissimo con me, hanno la sensazione di parlarmi senza essere giudicati. Sono un lettore di Schopenhauer e penso che la compassione sia l’unica risposta».
Si scopre così che il misantropo Houellebecq (ex misantropo, a questo punto) non risponde alle email di lavoro, ma replica invece sempre ai «tanti che si sentono al limite, e che mi inviano testi, frammenti, opere visuali come fotografie. Non ho paura di rimanere invischiato in relazioni difficili, queste persone in generale sono contente della mia attenzione, del fatto che leggo o guardo le loro cose e poi rispondo, e finisce lì. I miei versi hanno un successo enorme negli ospedali psichiatrici. Sento che c’è un rapporto con i borderline».
Il trio di registi olandesi Erik Lieshout, Arno Hagers e Reinier van Brummelen sta mettendo in scena il film Rester vivant con l’aiuto del grande rocker (e francofilo) americano Iggy Pop, che nel 2009 si ispirò al romanzo La possibilità di un’isola di Houellebecq per l’album Préliminaires, e che oggi presta alla pellicola voce cavernosa e musica. «Certo è uno spettacolo un po’ deprimente, speriamo di trovare i finanziatori», dice Houellebecq, come sempre senza ironia.
Se i vecchi versi scaturiscono dal principio «in origine c’è la sofferenza», le nuove poesie non parlano più di «odio degli altri e disprezzo di sé» perché la compassione nel frattempo si è fatta strada, ma il punto è ancora lo sbigottimento di stare al mondo. «Disparue la croyance/ Qui permet d’édifier/ D’être et de sanctifier/ Nous habitons l’absence» (Scomparsa la credenza che permette di costruire, di essere e di santificare, abitiamo l’assenza). «Par la mort du plus pur/ Toute joie est invalidée/ La poitrine est comme evidée/ Il faut quelques secondes/ Pour effacer un monde» (Morto il più puro, ogni gioia è invalidata, il petto è come svuotato, bastano pochi secondi per cancellare un mondo).
Il prossimo libro promette quindi di riecheggiare l’Houellebecq originario, quello che scrisse magnificamente di H.P. Lovecraft e della comune visione di un universo ridotto a «furtiva accozzaglia di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos, destinato ad avere la meglio». Ci mancherà allora l’altra faccia della medaglia Houellebecq, quella dell’osservatore della società — tra gli altri suoi miti c’è Balzac —, che ha usato i romanzi per descrivere il mondo contemporaneo e, talvolta profeticamente, anticipare il futuro prossimo: estensione della logica capitalistica e liberale ai rapporti sessuali e sentimentali, superamento dell’umano grazie alla genetica, terrorismo islamista, rifiuto della vecchiaia, clonazione, fino alla descrizione della Francia (nell’ultimo La Carta e il Territorio) come strano ibrido tra galleria d’arte e luna park per ricchi turisti di Paesi ormai molto emersi.
Alla Bibliothèque nationale, «Art Press» espone alcune delle fotografie scattate da Michel Houellebecq: «Non ho grosse pretese ma la fotografia gioca un ruolo nella mia vita. Per esempio, quando scrivo un romanzo, sono seduto faccia al muro e metto davanti a me le immagini dei luoghi nei quali è ambientata la storia: è un espediente che mi aiuta. Alcune foto le ho scattate l’estate scorsa a Boulogne sur Mer, sono un prolungamento di La Carta e il Territorio. Parlano della trasformazione della Francia in una specie di museo da un lato, e della persistenza della campagna dall’altro».
Dopo foto di caselli autostradali, ecco un’altra immagine tipicamente houellebecqiana: in un’ambientazione bucolica, tra casolari e molti alberi, un discount con parcheggio e il piccolo logo bleu-blanc-rouge «Leader Price» visibile a distanza di mille chilometri.
Che effetto fa vedere oggi il presidente François Hollande e i suoi ministri, per esempio quell’Arnaud Montebourg disposto a vestirsi da marinaretto, affannarsi a difendere la Francia e la sua produzione? Piace, a Michel Houellebecq, il Paese nel quale ha deciso di tornare, considerato che già tre anni fa ne anticipava il declino descrivendolo come un parco giochi per stranieri? «Mi sembra che la Francia si ostini a rifiutare il suo destino, anche se, io credo, non c’è più niente da fare. La produzione mondiale si riorganizza, e per fortuna i Paesi ricchi sono comunque attratti da quel che offriamo loro quanto a artigianato, turismo, gastronomia. L’Italia è un po’ nella nostra stessa situazione, nel bene e nel male. Io non ho preferenze, ma forse bisognerebbe accettare la realtà e abbandonare l’idea che solo l’industria sia un’attività nobile e decisiva per il futuro di una nazione».
Sul governo della Francia, e su Hollande più popolare all’estero che in patria, Houellebecq è poco incoraggiante. Oltre a non avere fiducia nel presidente, denuncia «il paradosso di un Paese che è sempre di più a destra e che si ritrova con un presidente di sinistra». «Io non voto alle elezioni, ma solo nei referendum, per principio — dice — e tuttavia la stranezza della situazione appare evidente. L’Ump (la destra repubblicana che in Italia definiremmo democratica, ndr) non può allearsi con il Front national, e il risultato è un Paese di destra governato dalla sinistra. Non mi pare molto sano». Houellebecq non condivide neppure le ragioni della recente battaglia contro Google e Amazon, condotta dalla ministra della Cultura, Aurélie Filippetti. «Qual è il problema? La sopravvivenza degli editori tradizionali? Non mi sembrano affatto minacciati. Va detto poi che il libro digitale in Francia è un flop totale, nessuno compra il lettore di ebook».
Un techno-entusiasta come Houellebecq non ha il Kindle? «No, il tablet per leggere è un prodotto schifoso ("mérdique", ndr), incomparabile con il libro di carta. Si legge male. Invece sono un grande cliente di Amazon nella sua veste di libraio». E tutta la retorica romantica sulle piccole librerie che non devono sparire? «Non so, mi limito a osservare che per i forti lettori come me Amazon è insostituibile. Io ormai ho letto tutto o quasi, quando vado in una libreria tradizionale non c’è niente che mi attragga e niente di quel che cerco. I grandi supermercati culturali provocherebbero omologazione tramite i bestseller? È vero il contrario. È solo su Amazon che riesco a trovare le rarità».
Non sorprende, da chi scrisse l’articolo dal formidabile titolo «Il mondo come supermercato e derisione». In quel testo, tra l’altro, Houellebecq osservava i pericoli dell’abuso di strizzate d’occhio, riferimenti, ironia e second degré nelle rappresentazioni artistiche e nelle comunicazioni tra le persone: «Tutto ormai si svolge come se l’espressione diretta di un sentimento, di una emozione, di una idea sia diventata impossibile, perché troppo volgare. Tutto deve passare attraverso il filtro deformante dell’ironia e del distacco». Anche per questo, secondo Houellebecq, non ci si capisce più e lo humour costante finisce per diventare «tragico mutismo». Anche per questo Michel Houellebecq, il meno francese degli scrittori francesi, può permettersi di parlare a lungo di poesia, compassione, psichiatria, Francia, Hollande e supermercati. Con lo stesso candore, e zero ironia.
Stefano Montefiori