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 2012  dicembre 23 Domenica calendario

GARLASCO, LITE TRA CARABINIERI SUL DELITTO IRRISOLTO —

Il maresciallo riassumerebbe la sua denuncia così: lo stavo incalzando. Ancora un po’ e avrebbe ceduto. Peccato che a un certo punto arrivò il capitano a interrompere l’interrogatorio, sennò avrebbe detto tutta la verità...
Siamo a Garlasco, 13 agosto 2007. Un giorno che va raccontato dall’inizio.
Il maresciallo dei carabinieri Francesco Marchetto è fuori sede per il suo turno di riposo. Nella piccola caserma della Lomellina il capitano Gennaro Cassese affronta ore di afa che più afa non si può. Succede sempre poco o nulla nella provincia pavese. Figurarsi ad agosto... Nulla. Finché non chiamano dal 118. Un certo Alberto Stasi, dicono, aveva appena telefonato: «Credo che abbiano ucciso una persona, non sono sicuro. Forse è ancora viva...». «Lei è un parente?» aveva chiesto l’operatrice. «No, sono il fidanzato».
Un delitto. Anzi, per Garlasco è «il» delitto. Chiara Poggi, 26 anni, uccisa a casa sua da qualcuno che l’ha colpita fino a sfondarle la testa. E il fidanzato Alberto sospettato, interrogato, poi indagato, arrestato, rilasciato, processato e alla fine assolto sia in primo grado sia in appello (Cassazione fissata per il 5 aprile 2013).
Ma questa è storia più recente. Per scrivere la denuncia e dire (fra le mille altre cose) che il suo superiore avrebbe «compromesso» le indagini, invece, il maresciallo Marchetto punta tutto su quel 13 agosto 2007. In sostanza la tesi è che lui venne estromesso (e quindi l’interrogatorio di Alberto Stasi finì senza che si scoprisse la verità) e che da lì in poi il capitano divenne, a suo dire, un nemico e persecutore. Quattro pagine di veleno contro Cassese che a parte l’omicidio ancora irrisolto tirano in ballo anche svariati presunti abusi d’ufficio.
«Tutto da archiviare» secondo il pubblico ministero. Ma il maresciallo Marchetto si è opposto e il giudice delle indagini preliminari non ha ancora deciso il da farsi. Mentre ha deciso la procura di Vigevano: controdenuncia, inchiesta e richiesta di rinvio a giudizio per lui, Marchetto. Accusato di aver calunniato il suo superiore (e non è l’unico capo di imputazione). Il solo a non aver mosso nemmeno una pedina giudiziaria è il capitano Cassese. Niente. Rimane a guardare e aspetta che decidano i giudici.
Ma torniamo al delitto di Chiara Poggi. Scrive il maresciallo nella sua denuncia: «Così come quel tragico evento ebbe a rovinare la vita di una normale famiglia e a scuotere una intera comunità di provincia, anche la mia vita ne è stata indelebilmente segnata e qui è corretto che io ripercorra quanto occorsomi....».
Ecco. Ripercorriamo.
«Quel giorno ero di riposo settimanale ma feci immediato rientro nel pomeriggio tardo (...). In caserma c’era il capitano Cassese (...) e il signor Alberto Stasi si trovava in sede di interrogatorio. Chiesi al pubblico ministero se potessi anch’io porre due domande a Stasi e la dottoressa Muscio me lo concesse. Entrai nella stanza e a differenza dei miei colleghi che lo facevano parlare senza interromperlo, per loro scelta o modus operandi, io iniziai a incalzarlo e notai subito, sia per peculiare somatica dello stesso (ovvero comportamento) oltre che per le risposte date, che qualcosa non tornava e a tal punto uscii dalla stanza e lasciai Stasi solo con il brigadiere e conferii immediatamente con la dottoressa Muscio».
Marchetto disse al pubblico ministero che sarebbe tornato da quel ragazzo e avrebbe ripreso a incalzarlo «e nel caso» avrebbe «richiesto il fermo». La confessione gli sembrava cosa fatta, in pratica. Solo un po’ di pazienza. «Ma rientrato in ufficio venivo interrotto dal capitano Cassese — dice nella denuncia — che invece faceva accomodare fuori dall’ufficio il signor Stasi dandogli la possibilità di confrontarsi con i suoi familiari».
Il risentimento del maresciallo verso il capitano cominciò in quel momento. Che errore, tiene a precisare, offrire a Stasi quella pausa con i familiari... «Lascio comprendere a chi se ne intende di polizia giudiziaria cosa possa significare una tale azione», considera Marchetto, che aggiunge: «A quel punto avevo già compreso dopo anni di polizia giudiziaria attiva che di fatto era stato compromesso l’esito di tale operazione e lo feci presente "a tu per tu" al capitano Cassese. Da quel momento il mio rapporto amichevole e fiduciario con lui cessò e lo stesso mutò il suo comportamento, che divenne puro odio e continua istigazione finalizzata alla persecuzione». Persecuzione: la stessa parola che avrà pensato chissà quante volte per se stesso anche Alberto Stasi.
Giusi Fasano