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 2012  dicembre 23 Domenica calendario

LA’ DOVE NELSON «COMBINAGUAI» GIOCAVA A FARE IL CAPO DELLA TRIBU’ —

La palla è fatta con sacchetti di plastica, avvolti su un condom gonfiato. Resistente, come i piedi dei bambini. Giocano scalzi nel vento che spazza il crinale. Uno corre con una scarpa sola, che ogni tanto presta a un amico. Vista magnifica: giù si vede il fiume, dove le donne di Mvezo come ogni mattina sono scese a prendere l’acqua. Lo facevano anche le loro bisnonne nel 1918, l’anno in cui vi nacque Mandela, il 18 di luglio.
Lo chiamarono Rolihlahla (combinaguai). Racconta nell’autobiografia che presso i Thembu il gioco preferito era lo stinti: due squadre, ciascuna con due legni conficcati nel terreno che gli avversari dovevano buttar giù. Il padre di Mandela, Gadla, era chief della piccola Mvezo, prima che un magistrato bianco gli togliesse il comando. A quel tempo Rolihlahla attraversò il fiume Mbashe sulle spalle della madre Nosekeni, terza di quattro mogli. Da Mvezo si stabilirono nella più grande Qunu, 30 km a nord, 100 abitanti. In lingua xhosa si dice di un persona esperta «che ha attraversato molti fiumi». Ha guadato 90 anni e diversi fiumi il leader forse più venerato al mondo. Sulla collina sopra Qunu ci sono i resti della scuola in cui un’insegnante lo ribattezzò Nelson. Dalla cima, dove c’è il museo Mandela oggi deserto, si vede la casa dove Madiba (uno dei suoi appellativi, dal nome del clan) è tornato per l’ultima tappa del suo viaggio. Da qui, due settimane fa, è stato trasportato d’urgenza all’ospedale. Infezione ai polmoni. Suo padre morì per qualcosa di simile, quando Nelson aveva 9 anni. Ultimo desiderio: datemi la pipa. La sua tomba è accanto a quella di Nosekeni in un rettangolo di prato con l’erba alta. Dal piccolo cimitero con la targa «Mandela graveyard» si vede la casa, dall’altra parte dello stradone. La N2 che attraversa la provincia dell’Eastern Cape, la più povera del Sudafrica, qui è stretta e trafficata. Da casa Mandela si sentono i camion. Le residenze dei leader sono appartate, invisibili. Madiba l’ha fatta costruire così nel 1991, dopo 27 anni di galera. Chiedendo che la pianta fosse identica alla villetta dei guardiani dove visse l’ultimo periodo di prigionia, nel centro detentivo Victor Verster vicino a Città del Capo. «Sono stato in entrambe e posso dire che sono uguali», racconta la guida dal belvedere del museo. Prima oasi da uomo libero, ultimo spazio da prigioniero. «Madiba diceva che dopo tanti anni di cella quelle stanze gli diedero il profumo della libertà». Per Zindzi, una delle due figlie, «la prigione ogni tanto gli mancava perché, diceva mio padre, "là avevo più tempo per riflettere"».
Quando è entrato in ospedale, la moglie Graça (che lui chiamava Mum) ha detto che «la sua fiamma si sta affievolendo». Non parla più, nelle foto ha un’espressione distante, persa. Da due anni e mezzo non appare in pubblico. Si è trasferito a Qunu, nella casa-prigione. Dalla parte opposta della strada un uomo sta facendo un recinto con il figlio che ha 11 anni e si chiama Mandela, nome proprio. Abitano vicino alla residenza del capo villaggio. Un anno fa nella proprietà del chief hanno scoperto le telecamere dell’agenzia Ap e della Reuters puntate su casa Madiba. La polizia le ha fatte togliere. Mandela, il ragazzino, ci accompagna al cimitero recintato. Lapidi in ordine sparso. Una tomba di mattoni senza nome. Da qui, secondo testimonianze raccolte dai giornali sudafricani, sono stati riesumati di recente i resti dei due figli maschi di Nelson, Thembi e Makgatho, oltre alla sorella Makazive morta a 9 mesi nel 1948. Un uomo che abita accanto al cimitero conferma la storia con mezze parole. Le tre bare sarebbero state portate a Mvezo e ritumulate sotto la supervisione di Mandla, il figlio di Makgatho morto a 55 anni di Aids. Mandla, uno dei nipoti prediletti, è il nuovo chief del villaggio natale di Madiba. Dopo quasi cento anni ha ripreso il bastone del comando sottratto al bisnonno. L’ultima volta Nelson è salito a Mvezo per la sua cerimonia di insediamento, pelle di leopardo e una residenza regale sproporzionata rispetto alle capanne sparse sulla montagna. Mandla, nato in città, a Johannesburg, oggi deputato dell’Anc, vive qui come capo tribù per 400 famiglie. C’è chi vede in lui l’anima della riscossa di Mvezo su Qunu, una lotta sotto traccia per quale sarà domani la capitale dei pellegrinaggi nella «Mandela Land». Palloni e acqua corrente si sono fermati a Qunu. A Mvezo, al termine di una strada sterrata tortuosa, il capo Mandla ci riceve all’imbrunire davanti a un kraal, recinto per il bestiame intorno al quale sono costruite varie capanne. Il villaggio celebra cinque ragazzi diventati uomini, con un rito di passaggio (circoncisione compresa) che è cambiato poco dai tempi di Rolihlahla e da cui sono esclusi gli estranei. Ma ora si accendono i fuochi, le donne cantano, gli uomini cenano separati. Felpa timberland e jeans, Mandla ha gli occhi che bruciano quando gli si chiede se è vera la storia dei corpi riesumati e portati a Mvezo. «I defunti della famiglia Mandela sono tutti nel cimitero di Qunu, nessuno li ha portati via». E non c’è nessuna contesa, fa capire, sul luogo dove riposerà Madiba. Un giorno, il più tardi possibile, sarà accanto ai genitori, vicino alla strada dove sobbalzano i camion e si affaccia la casa amata prigione.
Michele Farina