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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

C’È DEL MARCIO A ISCHIA-ITALIA E GIANNI MURA TORNA A INDAGARE


MILANO. Riecco Magrite, il commissario francese umano troppo umano che ama Maigret ma – salvo un paio di quadri – detesta Magritte. In Giallo su giallo (2007) aveva risolto un pasticciaccio al Tour de France. Adesso è in vacanza a Ischia con Michelle, magistrata eccitante e stagionata come Susan Sarandon. Scendono in una pensioncina. Mangiano benone. Bevono pure meglio. Fanno l’amore. Lei va alle terme. Lui gironzola, irretito dai languori dell’otium mediterraneo. A differenza di tanti suoi colleghi che nemmeno in ferie possono impedirsi di investigare, Magrite non indaga.
Però – appresso a Peppe ’o Pappone, struggente figura di macrò redento, – ne vedrà lo stesso di tutti i colori. Che alla fine diventano un colore solo: il noir.
Ischia è il secondo romanzo di Gianni Mura. Non ha il ritmo tambureggiante del primo, ma un’andatura meditativa, incantata, divagante, spezzata, di botto, da scene cupissime: ammazzamenti di immigrati, mortali dissesti del territorio, sbirri marci, aggressioni omofobe, suicidi di adolescenti...
Nel libro, l’isola sembra una pasticca in cui è concentrata tutta l’Italia.
«Lo è. Tutto quello che faccio succedere a Ischia è successo in Italia nell’ultimo anno. All’inizio avevo pensato di ambientare il romanzo a Milano. A fare da Virgilio a Magrite doveva essere Carletto, Carlo Pierelli, che, al volante, è stato mio compagno di viaggio in tanti Tour de France. Però la sua morte mi ha costretto a riscrivere tutto. Ischia è dedicato a lui».
Giallo su giallo era un giallo. Questo assomiglia a un noir. Che differenza c’è?
«Secondo me, il giallo è manicheo: chi sbaglia paga. Se invece non paga, è noir».
Qui alla fine c’è una specie di nemesi. Però disperata. Niente a che vedere con la giustizia ordinaria.
«I veri gialli non stanno nei libri, ma nelle pagine dei giornali. E quelle cronache ci dicono che in Italia l’ottanta per cento dei delitti rimangono impuniti. Gli unici misteri risolti sono quelli dei romanzi. Nella realtà, i Nostri arrivano in ritardo, oppure non arrivano per niente. Certe volte sei tentato di stare coi Comanche».
Ad ogni modo, rimani un patito della Nera.
«La seguo. D’altronde, sono cresciuto nelle caserme. Mio padre era maresciallo dei Carabinieri».
Perché lo chiamavano il Maigret della Brianza?
«Perché era umano e non girava armato. Si occupava di ladri d’auto e piccoli contrabbandieri. Però una volta risolse un omicidio a sfondo sessuale. Trovarono il cadavere di una ragazza dentro un fosso. Lui risali all’assassino dopo aver raccolto la testimonianza di uno che, al bar, l’aveva sentito cantare Maria Maria, che bella latteria... Una di quelle canzoncine a doppio senso. All’epoca, non c’erano sex shop per sfogarsi».
A parte Simenon, chi sono o sono stati i tuoi giallisti de chevet?
«Tanti. Agatha Christie, McBain, Westlake, Markaris... O Giuseppe Ciabattini». E chi è?
«Uno scrittore degli anni 50. Dimenticato. I protagonisti dei suoi romanzi erano investigatori-barboni. Parlavano il linguaggio della strada. Però non sono mai stato un vero cultore del giallo, più che del genere mi sono sempre innamorato dei personaggi».
Maigret segna una storica apertura del poliziesco alla gastronomia.
«Sì, ma con discrezione». Rivoluzione di velluto, ma pur sempre rivoluzione.
«Certo. Pensa agli hard-boiled americani. Lì i detective bevono whisky, magari scopano, ma non mangiano mai».
Tu i libri di ricette li leggi?
«No. Preferisco cose tipo La storia del pomodoro. O Il peperone nella storia».
Ratiag. Mercati. Esodati». Nel romanzo te la prendi con la neo-lingua dei media. Però, negli ultimi anni, anche i menù italiani si sono riempiti di mostruosità. Tipo tartare di tonno o di branzino.
«E più addietro, pennette vodka e salmone...».
Contro certe derive, hai fondato il GRAS: Gruppo Resistenza Anti Sushi. Crociata sciovinista?
«Macché. Mi piace la cucina cinese, e vado al kebab».
Comunque crociata vittoriosa: i fedeli del crudo alla nipponica sono in calo...
«Sarà. In compenso, la battaglia contro la rucola l’ho persa».
Che t’ha fatto, la rucola?
«Niente. Però va messa al posto giusto. Non sulla tagliata, per esempio».
Che tipo di cucina ti ripugna?
«Quella degli s-cuochi. I cuochi infermieri. Gli ipocalorici. Una volta, qui a Milano, chiesi del formaggio. Mi risposero: Non ne abbiamo. Perché fa male. Se permettete, la dieta ipocalorica me la faccio da solo, a casa mia. Mica al ristorante».
Tu, francofilo, hai detto che girando per la Francia appresso al Tour si scoprono paesaggi bellissimi, ma girando per l’Italia si mangia meglio.
«Loro hanno protetto il paesaggio. Noi lo distruggiamo. Però, se vai in trattoria, ti rendi conto che la nostra cucina è cinque volte più variata».
Perché sulla rubrica Mangia e Bevi del Venerdì non c’è la tua fotina?
«Per non farmi riconoscere nei ristoranti».
Ma ormai la tua faccia è conosciuta.
«Si ma, secondo me, la fotina sulla rubrica un po’ intrombonisce. Non so. Magari, per altri giornalisti è una conquista: come ricevere in mazzetta la Frankfurter Allgemeine. Scusa...».
(Pigola il cellulare. Lo chiamano dal giornale: al ciclista Lance Armstrong hanno tolto tutti i titoli per doping).
Devi andare a scrivere?
«Sì, ma non subito».
Perché hai pubblicato il tuo primo romanzo a 62 anni?
«Per timidezza, rispetto nei confronti del libro. Eppoi la mia voglia di scrivere era ripagata da quello che facevo per Repubblica e per il Venerdì. Mi ritenevo soddisfatto cosi. Pensavo che il mio passo fosse tra le 3 e le 12 cartelle. Quando lavoravo all’Occhio di Maurizio Costanzo, un pezzo non doveva superare le trenta righe. Mi sono dimesso».
Non trovi che l’editoria operi ormai come lo sport, che fabbrichi troppi campioni usa e getta?
«C’è una gran fretta di incoronare nuovi eroi. Uno scrive un bel libro e subito non è più un bel libro, ma il libro più bello del secolo. E avanti il prossimo. La critica si è sportivizzata».
Come dire che s’è data alla macchia.
«Un tempo, il critico era considerato un operatore culturale. Oggi è visto come un parassita sociale».
Uno che riceve i libri gratis, che va al cinema o a teatro senza pagare. E non dice mai nulla di male contro niente.
«Perché i prodotti, gli oggetti, sono ormai economicamente più protetti delle persone».
Mentre su Internet è tutto uno sgomitare di critici e scrittori «autoproclamati»...
«Mettiamola cosi: secondo me non tutti quelli che vanno sul web sono dei dementi. Ma tutti i dementi vanno sul web».
Ischia si conclude, malgrado tutto, con una frase confortante: «Il futuro è abitabile». Però, poche settimane fa, alla fine di un bellissimo ricordo di Beppe Viola, scrivevi che oggi l’avvenire «è un buco sempre più nero». Insomma: sei un ottimista riluttante o un pessimista cosmico?
«No, tendo a vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma dipende dai giorni. Certe volte mi fisso sull’altra metà».
Farai mai un romanzo sul calcio?
«Bah. Non mi ispira. Quantomeno il Grande calcio. Al limite, scriverei di squadrette».