Antonio Armano, il Venerdì 21/12/2012, 21 dicembre 2012
IL CORANO - ALLA RICERCA DEI MANOSCRITTI PERDUTI
Per dirla con Hugo Pratt, avevo un appuntamento. Con Sergio Noja ci si doveva incontrare venerdì 1° febbraio 2008. Ma il 31 gennaio, Alba Fedeli, allora direttrice della fondazione Noja Noseda per gli studi arabo-islamici, mi chiamò dicendo che il professore era successo qualcosa di grave. Una macchina l’aveva travolto mentre attraversava la strada davanti a villa Noseda, sul lago Maggiore, dove viveva con la moglie Adriana e dove si trova la fondazione.
Noja aveva lasciato l’insegnamento alla Cattolica per limiti d’età (il 7 luglio avrebbe compiuto 77 anni) e messo in piedi la fondazione con la quale si dedicava in particolare alla pubblicazione di manoscritti coranici, in collaborazione con l’accademico di Francia François Déroche. Un ambizioso progetto di «edizione critica» del Corano che procedeva a gonfie vele soprattutto negli ultimi tempi. Noja aveva fatto un colpaccio. Il governo yemenita gli aveva permesso di fotografare e studiare le antiche pergamene coraniche ritrovate durante lavori di ristrutturazione della grande moschea di San’a nel ’72.
Prima di lui, all’inizio degli anni 80, l’orientalista tedesco Gerd-Rüdiger Puin aveva avuto accesso a quelle pergamene. Ma i rapporti con lo Yemen si erano deteriorati dopo alcune dichiarazioni riportate dallo scrittore Toby Lester in articolo sull’Atlantic Mohthly intitolato Che cos’è il Corano? Per i musulmani è un oggetto sacro, il verbo di Dio perfetto e imperfettibile trasmesso a Maometto che lo ha predicato, spiegava Noja, «limitandosi a riprodurlo come un semplice strumento, come se fosse un megafono».
L’idea stessa di un’edizione critica può apparire di per sé blasfema? Come tutti i testi sacri anche il Corano ha una storia, si è affermato in una versione standard tra varianti più o meno significative. Inoltre la datazione fatta col C14 o col metodo paleografico pone la questione della vicinanza della stesura rispetto alla Rivelazione. Secondo la tradizione il Corano fu messo per iscritto dal califfo Uthman, pochi anni dopo la morte di Maometto (632 d. C.), in una versione che si è imposta per sempre sulle altre. Lo studioso americano John Wansbrough sosteneva invece che risalisse a tre secoli dopo. Oggi buona parte degli studiosi prende sul serio la versione ufficiale.
Uno dei motivi che spinse a mettere per iscritto la Rivelazione è che i seguaci del Profeta cadevano sul campo di battaglia durante la conquista e la conversione di un’immensa fascia di mondo, dal Marocco alla Cina. Le pergamene di San’a sono fondamentali per ricostruire quel momento storico, anche perché alcune contengono un testo cancellato (raschiato o lavato via), sotto quello superiore. La questione è da prendere con le dovute cautele. La pergamena (nient’altro che pelle di pecora) offre la possibilità di cancellazione e riscrittura (per questo a un certo punto si preferì usare nei documenti ufficiali il papiro). La stessa tradizione islamica fa riferimento ai famosi «sette lettori», seguaci di Maometto che avevano trasmesso il verbo con alcune minime varianti. Alcune pergamene di San’a contengono diverse varianti. Su di esse sono stati pubblicati alcuni studi, l’ultimo San’a 1 and the Origins of the Quran. Gli autori sono due americani, Benham Sadeghi di Stanford e Mohsen Goudarzi di Harvard. L’orientalista Christian Robin, partner di Noja Noseda per San’a, ha concesso loro le immagini fatte in Yemen. Noja non aveva avuto il tempo di studiarle attentamente, ma aveva avuto il tempo di compiere alcuni viaggi nella capitale yemenita con Alba Fedeli e un fotografo dotato di apparecchiatura a raggi ultravioletti per riprodurre il testo inferiore.
«Nell’ottobre 2007 siamo stati in Yemen per due settimane, io, un fotografo e la sua assistente» racconta Alba Fedeli, oggi ricercatrice all’università di Birmingham, dove studia i manoscritti coranici raccolti da Mingana. «Il professore è arrivato quando noi avevamo già iniziato. Si occupava delle pubbliche relazioni e alla fine siamo usciti dal Paese con un decreto presidenziale che autorizzava la fondazione a produrre le immagini e pubblicarle. Noi ci occupavamo del lavoro alla Casa dei Manoscritti (Dar al-Makhtutat) dove sono custodite le pergamene. Si lavorava fino alle due o alle tre, a seconda dell’umore del custode che iniziava a urlare infuriato quando doveva chiudere le porte e non c’era nulla da fare». Le varianti delle pergamene di San’a, secondo Noja Noseda, sono di scarsa entità, non cambiano la sostanza. Sadeghi e Benham sono sulla stessa posizione. Niente versetti satanici o altre esplosive sorprese. Il progetto di pubblicazione delle pergamene continua con Robin e darà luogo a un volume che uscirà presso Brill nel 2013. Per questa pubblicazione Robin ha unito le forze col progetto Corpus Coranicum che ha una affascinante e tormentata storia.
Il Corpus Coranicum eredita il primo grande progetto organico di studi sul Corano che si deve al tedesco Gotthelf Bergsträsser, pioniere in questo campo. Bergsträsser viaggiò in Medioriente con una Leica e pellicole Agfa a fotografare manoscritti. Nel ’33 durante un’escursione in montagna in Germania scomparve e il corpo non fu più trovato. Gli succedette Otto Pretzl, ma con l’arrivo del nazismo il gruppo di studio fu sciolto. Anche perché ne facevano parte studiosi ebrei.
Nel ’44 la Raf bombardò il convento dei gesuiti dove si trovava l’Accademia Bavarese delle Scienze e i rollini Agfa andarono distrutti. Così si credeva finché, poco prima di morire, l’islamista Anton Spitaler, ultimo direttore del progetto iniziato da Bergsträsser, rivelò alla sua allieva, Angelika Neuwirth, di essere in possesso dei negativi. Perché aspettò tutto quel tempo a dirlo? Non si sentiva all’altezza della ricerca ma non voleva che altri la portassero avanti? Non voleva riaprire un capitolo finito col nazismo? Durante la guerra Spitaler prestò servizio come interprete nell’845esimo battaglione di fanteria arabo-tedesca, un corpo di volontari arabi. Pretzl morì in un incidente aereo a Sebastopoli, in missione per la Werhmacht. Volendo cedere a una banale suggestione si può credere a una sorta di maledizione delle pergamene. In realtà Pretzl morì in guerra come milioni di altri, gli incidenti di montagna capitano anche a esperti alpinisti come Bergsträsser e Noja sembra più vittima della maledizione di villa Noseda. Con la moglie aveva ereditato da una zia di quest’ultima l’edificio neoclassico di Lesa dove furono girati sceneggiati come Malombra e Il diavolo a Pontelungo. La zia fu investita da un’auto nello stesso punto del professore. La strada di fronte alla villa è stretta e cieca.
Noja non mise in conto di morire. Andare in Yemen non era un’impresa così pericolosa come oggi. In compenso la moglie aveva un tumore. Nessuno avrebbe detto che sarebbe sopravvissuta al professore. Nel giugno del 2010 se n’è andata anche lei lasciando villa Noseda, sede della fondazione, al vicino di casa, Alessandro Falciola, imprenditore molto vicino alla famiglia. Che fine farà la fondazione? Non risulta che sia stata sciolta ne che svolga attività. Alla Regione Piemonte la definiscono dormiente. «Non capisco dove siano finiti gli scopi della fondazione» dice Alba Fedeli, non più direttrice. «Ora credo che sia inattiva e inaccessibile, contrariamente al suo statuto. Quello che più mi preoccupa è la conservazione della corrispondenza del professore. Archiviata con la precisione e l’amore di chi ha la consapevolezza di ciò che sta per lasciare dopo di sé, è un prezioso documento sugli studi arabo-islamici e semitistici tra gli anni 50 è la sua morte. E non può andare persa».
I negativi Agfa scampati al bombardamento della Raf si trovano a Potsdam, all’Accademia di Berlino-Brandeburgo delle Scienze e di Umanistica. Il direttore del Corpus Coranicum, Michael Marx, apre l’armadio dove sono custoditi insieme ad alcuni effetti personali di Bergsträsser, come il passaporto pieno di visti balcanici. I negativi sono custoditi in scatole di sigari o biscotti o altri contenitori di latta dell’epoca. Tutti i negativi, dice Marx, sono stati digitalizzati. Come spiega Marx, le pergamene di San’a saranno pubblicate a breve dall’editore accademico Brill. Come primo volume di una serie, Documenta Coranica, curata da Marx stesso, Déroche, Robin, Neuwirth. Marx mi mostra sullo schermo del computer il lungo e paziente lavoro eseguito per isolare il testo inferiore cancellato, da quello superiore. Mi porta anche a vedere alcune pergamene coraniche custodite alla Biblioteca di Stato di Berlino. Un manoscritto è particolarmente prezioso perché si tratta di un Corano quasi completo, più difficile da trovare rispetto ai frammenti.
Il Corano che si trova a Tashkent è venerato dai musulmani dell’area come il Corano di Uthman. Lo chiamano anche Corano di Lenin perché le truppe zariste lo trafugarono durante la conquista dell’Asia centrale e il leader bolscevico lo restituì agli uzbechi in segno di riconciliazione dopo avere messo a ferro e fuoco l’area per sottometterla all’Urss. Si trova in un’area storica sopravvissuta al terremoto che distrusse la capitale uzbeca. Lo studioso che più si è dedicato agli antichi manoscritti dell’Asia è Efim Rezvan, direttore della rivista Manuscripta Orientalia e vicedirettore del museo di etnografia e antropologia Pietro il Grande a San Pietroburgo. Rezvan ha realizzato un documentario, Il Corano di Venezia, dove compare Noja Noseda. Il Corano di Venezia è un famoso Corano stampato di cui si avevano notizie, ma nessuna prova dell’esistenza. Negli anni 90 saltò fuori una copia a Venezia. Noja Noseda fu interpellato per sapere cosa fosse. La storia della nascita del Corano è affascinante e talvolta terribile tra Nazismo, Yemen, orientalisti italiani, francesi, italiani, russi, ipotesi diplomatiche e rischi di accuse di blasfemia. Le tecnologie e i tempi rapidi di diffusione del sapere amplificano i pericoli, ma anche le possibilità di trasparenza.
In tutto questo ogni tanto singole pergamene spuntano a Londra e sono messe all’asta a cifre milionarie. Col ritrovamento di San’a e gli sforzi accademici che si sono uniti, la sfortunata storia degli studi coranici è comunque a un punto di svolta.