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 2012  dicembre 22 Sabato calendario

I MAYA, PORACCI, FORSE NON AVEVANO CALCOLATO GIUSTO


Dunque la fine del mondo non c’è stata. I Maya non avevano calcolato giusto. Anche noi, del resto, ci credevamo solo a metà, con un gioco di simulazione esteso ai video-game, alle gite turistiche, ai pranzi di addio, alle sedute medianiche. C’è stata anche l’esplosione di una fiorente industria culturale: libri, dvd, talismani, kit di sopravvivenza, bunker prefabbricati di salvezza, miss Fine del Mondo, viaggi low-cost in Yucatan, canzoni della fine, strip apocalittici.
Eppure, quando si pensi al fatto che tutti gli italiani, in qualche modo, se ne sono interessati, possiamo dire che ieri la fine del mondo c’è anche stata. Non nel cosmo, ma nella coscienza. Perché è una idea che appartiene all’uomo in quanto tale e non c’è civiltà che non l’abbia avuta. Una cosa è dunque certissima: che questo mondo finirà. Quando non lo sappiamo: «quel giorno e quell’ora, nessuno li conosce» (Matteo, 25, 3).
Per ora è finito quel mondo, che Leopardi, ironicamente, chiamava delle «magnifiche sorti e progressive»: del Progresso continuo, della Scienza onnipotente, della Tecnica miracolosa, grandi favole cadute nella nostra epoca postmoderna. Anche ammesso, come diceva Lavoisier, che «niente si crea», resta la certezza che la materia non è eterna. La pretesa di Mayer della conservazione della energia è stata smontata dalla scienza. Oggi sappiamo che l’universo si degrada e l’entropia crescerà a tal punto, che prima o poi sarà la fine. E che, pertanto, non possiamo continuare nella distruzione della natura, che è finita e non può fornire senza limiti materiali ed energia.
L’idea della fine del mondo, anche se espressa in modalità diverse, accomuna tutte le religioni: dal dualismo iranico alla catastrofe cosmica dei greci, dal Talmud all’Apocalissi cristiana, dalla religioni dei Germani a Gioacchino da Fiore. La religione è il senso della «infinita differenza qualitativa» tra Dio, che non comincia e non finisce, e questo mondo, che scorre via e scompare. Solo una civiltà secolarizzata come quella dell’Occidente moderno ha preteso di cancellare l’idea, che prima ancora è una esperienza vitale, della fine del tutto. Ma oggi questa civiltà, anche se sta occupando con la globalizzazione culturale l’intero mondo, sperimenta una crisi dei suoi fondamenti. E rinascono, allora, quelli che Jung chiama «archetipi»: idee perenni sul destino dell’uomo, troppo spesso ricoperte dai miti della razionalità e immagazzinate nell’inconscio. Dove continuano a vivere e ad agire.
Come mostra l’interesse crescente nelle città più industrializzate per tutto ciò che è sopra o subnormale: il mito e le religioni orientali, i tarocchi e le medicine alternative, l’astrologia e i fiori di Bach, il satanismo e il paranormale. Il più delle volte in forme superficiali e inquietanti, ma non prive di autenticità, nella misura in cui richiamano l’uomo ad una dimensione, che nessuna scienza o pianificazione può cancellare: il bisogno di Sacro. E pertanto di quelle religioni, che ne sono, nelle diverse civiltà, le cifre. E che danno una risposta a domande ineludibili, la cui artificiale tacitazione provoca nella psiche umana traumi e psicopatie (mai tanti come oggi).
Deridere la banalizzazione massmediatica e la strumentalizzazione consumistica della fine del mondo è certo opera positiva. Ma dimenticare ciò che vi sta sotto, ossia l’esigenza di valori spirituali perenni, significa degradare l’uomo a un semplice automa computerizzato e troncare il filo che lo collega al mondo invisibile. E, di conseguenza, bloccare quel «supplemento di anima» (Bergson), che consente un uso umano della scienza e della tecnologia. Una scienza presuntuosa e invadente ha voluto di fare a meno del soprannaturale. Sarebbe tuttavia un errore, come purtroppo accade, sostituire il mito del Progresso con quello del Regresso. Occorre, invece, una convergenza di attivismo creativo e di riflessione umanistica: operare nel mondo, per renderlo sempre più efficiente e umano, ma anche sapere che esso prima o poi dovrà finire: «il mondo è una scena che passa» (1 Cor. 7, 31). La giornata di ieri ci ha indotto a pensarci.