Sandro Cappelletto, la Stampa 23/12/2012, 23 dicembre 2012
DALLE SALE DA CONCERTO AI BORDELLI L’AVVENTUROSA STORIA DEL PIANOFORTE
Lo studio del pianoforte è diventato ormai una necessità, essenziale all’armonia della società come la coltivazione della patata lo è alla sussistenza delle persone». Parigi, 1847: il critico Henry Blanchard sancisce il trionfo sociale di uno strumento che stava allora assumendo, dopo molte trasformazioni, la sua forma definitiva, rimasta tuttora inalterata.
Tra le qualità positive del pianoforte, anche quella di poter essere suonato, senza sconvenienze, dalle giovani donne; gli strumenti a fiato, che vanno portati alla bocca, vengono ritenuti osceni quasi quanto il violoncello, tenuto stretto tra le gambe, mentre il violino obbliga a posizioni giudicate non eleganti. «Miei cari – dicono i giovani ricchi parigini parlando con gli amici ho sposato una rendita di quindicimila franchi. E poi mia moglie suona il pianoforte come un angelo». Angeli travolti dalla passione quando assistono a un concerto di Chopin o di Liszt e cappelli, fazzoletti, veli, bigliettini da visita volano dalla platea verso il palcoscenico. Poter diventare loro allieve!
Storia naturale del pianoforte di Stuart Isacoff, uscito nel 2011 e ora pubblicato in edizione italiana dalla Edt (338 pagine, 22 euro), è un racconto e insieme un saggio, fedele alla tradizione anglosassone di divulgare in modo corretto senza eccessivi tecnicismi e, in questo caso, sapendo anche divertire. Il libro parte da Firenze, dove a fine Seicento alla corte dei Medici operava Bartolomeo Cristofori, il più accreditato «padre» di quello strumento che attraverso varie modifiche (spinetta, clavicembalo, fortepiano) sarebbe diventato il pianoforte e ne racconta l’epopea in tutto il mondo. Tra i «virtuosi itineranti», un mestiere che Mozart ha dovuto imparare da bambino suonando per re e principi di mezza Europa, un posto di riguardo è concesso agli intrepidi musicisti che, durante la corsa all’Ovest, intrattenevano banditi, sceriffi, cercatori d’oro e non altrettanto romantiche signorine, tra una rapina alla banca e una sparatoria in un saloon, quando i suoni della tastiera cercavano di coprire il sibilo delle pallottole. Immancabile la presenza del pianoforte nei bordelli, almeno in quelli che miravano a un certo livello. Tratto distintivo del «pianista da bordello» – figura professionale che oggi appare estinta – avere sempre pronto un repertorio sterminato di canzoni allegre e di vivaci brani da operette.
Molte sorprese possono riservare le tournée: in Iran, Joseph Bloch, concertista e didatta alla prestigiosa Juilliard School di New York, trovò un pianoforte panneggiato con amplissimi veli neri. Pensò a una forma estrema di integralismo, per coprire le tre gambe dello strumento, ma quando iniziò a suonare capì che si trattava soltanto di una messa in scena: il contratto prevedeva un «gran coda», lo strumento era invece un modesto «verticale», che addobbato così poteva trarre in inganno.
All’inizio del Duemila, la più grande fabbrica è la Pearl River, cinese. Produce e vende parti «nuove o restaurate» anche alle storiche aziende europee e americane e fornisce strumenti ai trenta milioni di pianisti attivi in Cina, dove possedere un pianoforte rappresenta un invidiato simbolo di raggiunta agiatezza. Lang Lang è il testimonial principe del musicista cinese di successo. Suo padre fu con lui severissimo: non devi suonare per suonare, ma per emergere e diventare il primo. L’esempio ha fatto scuola, e molti danni.
Isacoff, scrittore e storico della musica, fondatore della rivista Piano Today, non si dedica solo ai pianisti «classici», di cui il libro ospita, in appositi riquadri, opinioni e consigli interpretativi; molte pagine sono riservate ad episodi mirabolanti accaduti durante i grandi concerti jazz e rock, per la gioia dello show-business. 1958, Paramount Theatre di Brooklyn: «Jerry Lee Lewis estrasse dalla giacca una bottiglietta di Coca Cola piena di benzina e la versò sul piano con una mano, mentre con l’altra percuoteva la tastiera; strofinò un fiammifero e diede fuoco al pianoforte; le sue mani, come quelle di un pazzo, non abbandonarono i tasti in fiamme…». A quel fantastico pianista rock piaceva accendere così l’entusiasmodel pubblico.
Anche il canadese Glenn Gould usava, per distinguersi, mezzi estremi, che Isacoff non gradisce: «La sua arte aveva in sé i poli opposti dello spirito d’avventura e della pura provocazione. Le sue interpretazioni dei grandi concerti romantici tendevano marcatamente al grottesco, in ossequio alla sua ripugnanza verso gli sfoggi di virtuosismo». Gould consultò più volte Marshall McLuhan e Isacoff è persuaso che sia stata l’ansia di distinguersi nell’orizzonte mediatico a fargli decidere di segare le gambe dello sgabello, abbassandolo di quindici centimetri rispetto alla norma, o di dar vita alla celebre gag con Leonard Bernstein: «Non condivido nulla dell’interpretazione di Mr. Gould del Primo Concerto di Brahms, ma dirigerò lo stesso per rispetto a un grande artista», disse Bernstein prima dell’ingresso in scena di Gould, elettrizzando l’attesa del pubblico.
Al termine di questa sua storia più sociale che naturale, l’autore si dice persuaso che «essendo il mondo diventato un grande palcoscenico, ancora per molte generazioni a venire decreterà il successo del più spettacolare degli strumenti, nonostante il nome in apparenza così banale: piano e forte».