Maria Giulia Minetti, la Stampa 22/12/2012, 22 dicembre 2012
IL FASCINO DEL TEATRO? POLVERE E MISTICISMO
È la stella che sorge del teatro italiano. Meglio, la stella che finalmente comincia a splendere, non più velata da nubi. Dopo dieci anni di oscuro precariato nei centri sociali, Lucia Calamaro ha colto uno strepitoso successo critico col dramma Le origini del mondo da lei scritto, diretto e anche interpretato in un ruolo minore. Rappresentato quest’anno a Roma su un palcoscenico finalmente «normale», e atteso a febbraio al Teatro Franco Parenti di Milano, L’origine del mondo, ritratto di un interno , dramma fluviale di disperazione quotidiana – madre e figlia, e occasionalmente una nonna, che si torturano in una domesticità asfissiante –, è stato il vero trionfatore dei premi Ubu, portando a casa il trofeo al miglior testo italiano, all’attrice protagonista (Anna Deflorian), alla non protagonista (Federica Santoro) e una nomination per il miglior spettacolo dell’anno.
Inevitabile cercare parentele, quando ci si avvicina a un nuovo autore. Avvicinandosi a lei, ai suoi personaggi che si parlano addosso dentro situazioni «chiuse» viene in mente Bernhard. Ne ha sentito l’influenza?
«Non lo so. Se c’è una cosa che mi salva è essere un autore inconscio. Il teatro non lo faccio “a scientia”, ma “a nescientia”. So però di essermi scrollata di dosso Beckett. Quando l’ho letto ho avvertito la minaccia di essere colonizzata da quel modello».
È sfuggita alla colonizzazione, non c’è dubbio. I suoi personaggi sono gonfi di sentimenti,in Beckettil sentimento non c’è.
«I personaggi di Beckett sono talmente fottuti che non soffrono neanche più. È questo che mi terrorizza».
Anche i personaggi dell’ Origine del mondo non se la passano bene, però. Soffrono ancora, è vero, ma senza rimedio…
«Vede l’eterogenesi dei fini? La mia idea, invece, era di mettere in scena una mia bellissima [ride] depressione e il conseguente, positivo percorso psicoanalitico. L’idea fondante era: fate un’analisi, aiuta».
Non è così evidente, glielo assicuro.
«No? Eppure alla fine sembra che Daria [la protagonista] riesca a fare pace con le vicende del campare. Fare pace con l’esistere».
“Sembra”, appunto. Ma torniamo a lei. Perché ha scelto il teatro?
«Da piccola volevo fare la scrittrice e la ballerina. Il teatro s’è rivelato un buon compromesso».
Al cinema non ha mai pensato?
«Mai. Ho sentito a 12 anni il fascino del velluto rosso. Allora vivevo in Uruguay, a Montevideo. Mio padre era un diplomatico… I teatri in Sudamerica! Decadenza, polvere, creature che parevano uscite da un armadio…Eppure li sentivi abitati da un’energia diversa. A parlare di energia si diventa mistici, ma è proprio questa forma di misticismo il bello del teatro».
Quando è tornata in Italia?
«Tardi. È una storia lunga».
Sentiamola.
«Riassumo. In Sudamerica ho fatto il liceo francese così, finito il liceo, sono andata a studiare a Parigi. Università e corsi di teatro. Frequento Lecoq [attore, mimo, fondatore di una celebre scuola], ma mi butta fuori. Inutile che lavori qui, mi dice».
Perché?
«Nel teatro di Lecoq la poesia passa attraverso l’immagine, mentre la mia area privilegiata è la parola. Io però penso bene di aggregarmi a una coppia, un mimo e una ballerina, che aveva lavorato con Grotowski: training eterni, orari impossibili, silenzi. Ho parlato più con Lecoq che con loro. Nel frattempo mi laureo - facoltà di Art et Aesthetique, epistemologia dell’arte, per capirci – e faccio con fatica, e senza successo, l’attrice».
E finalmente rientra in Italia…
«No. Dopo la laurea, causa amore, torno in Uruguay. Io e il mio compagno mettiamo su una compagnia di giro.Allestiamo montaggi di testi narrativi, poetici. Parecchio Borges, Pessoa, tantissimo Valery… Non ho mai frequentato molto i testi teatrali. La letteratura si permette sprofondi, sproloqui che il teatro non si permette. Trovo spesso nella letteratura uno spessore di senso più potente che nei drammi… Finita l’esperienza in Uruguay, sono tornata in Italia».
Soldi? Lavoro?
«Volevo fare l’attrice. Quando finalmente un regista mi concesse un provino mi disse: “Sculetta!”. A quel punto ho deciso: faccio il regista. Ho trovato il mio spazio nei centri sociali. Ho fatto lì la mia gavetta: prima regista, poi regista e drammaturgo. Non sarei campata senza mio marito, però – sì, mi sono sposata, in Italia –. Lui mi ha sostenuto: “Va’ avanti, è il tuo talento, io reggo botta”».
Come nascono i suoi drammi?
«Li butto giù e poi li adatto sugli interpreti. L’interprete mi condiziona molto. Nell’Origine del mondo ho cercato disperatamente un attore che facesse il marito di Daria. Avevo cominciato a parlare con Roberto Rustioni, e però non ha funzionato, la parte non è stata scritta».
Difficile accostarsi al mondo maschile?
«Non credo, ma finora l’autobiografia è sempre entrata a forza nella mia scrittura. Scaturiva da un luogo del profondo. Il testo cui sto lavorando ora, però, si situa in un luogo più speculativo. È un lavoro sul tempo. Sei ore di teatro per un uomo».
Scusi, ma mi viene da ridere. Sembra che lei aderisca a uno stereotipo: il teatro delle viscere è femminile, il teatro del pensiero è maschile…
«Ha ragione [ride anche lei]… È così. Sarà che, accompagnandomi male, ho incontrato poche donne speculative».