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 2012  dicembre 22 Sabato calendario

UN SISTEMA INCAPACE DI RIFORMARSI


Una «legislatura sprecata», così qualche giorno fa si è espresso il presidente della Repubblica a proposito della legislatura che proprio in queste ore sta volgendo al termine. Difficile dargli torto. Nata con la nettissima vittoria del centro destra e la bruciante sconfitta del Pd di Veltroni, la legislatura è andata avanti avviando innumerevoli riforme, piani e interventi ma portando a termine ben poco di ciò che è stato iniziato. Se si eccettua la riforma delle pensioni, che può piacere o no ma è per molti versi un capitolo chiuso, quasi tutto il resto è un triste inventario di atti mancati e di lavori non finiti.

Vale per le riforme avviate e lasciate a metà dal centrodestra. La riforma Brunetta della Pubblica Amministrazione ha migliorato ben poco i rapporti fra Stato e cittadini. La riforma della scuola ha mancato la sua promessa fondamentale, restituire alla scuola una parte dei risparmi ottenuti con i sacrifici della scuola stessa. La riforma dei servizi pubblici locali si è insabbiata per le resistenze del ceto politico locale e per l’esito del referendum sull’acqua. Il federalismo è stato diluito, stravolto e procrastinato fino a farne un mostro in cui nessun vero federalista potrebbe mai riconoscersi.

E anche se alla maggior parte degli elettori non interessa granché, vorrei aggiungere quello che invece, per me, è l’atto mancato più grave di tutti i governi degli ultimi anni, quello che dà pienamente la misura della nostra collettiva inadeguatezza: le carceri sono quelle di sempre, traboccanti di detenuti che vivono in condizioni inumane, quando riescono a non morirvi. Una vergogna che ci costa da decenni le condanne dalla Corte Europea dei Diritti Umani, una vergogna che non ha eguali in nessun altro Paese sviluppato, una vergogna che a quanto pare turba soltanto i radicali e il loro leader Marco Pannella, che su questo – nell’indifferenza generale – sta conducendo l’ennesimo sciopero della fame e della sete.

Ma il severo giudizio di Napolitano vale anche, secondo me, per l’ultimo anno, quello in cui – secondo gli auspici di tutti – Monti avrebbe dovuto varare riforme coraggiose e i partiti rinnovare la politica. Inutile tornare sulla presa in giro cui siamo stati sottoposti: i privilegi economici dei politici sono stati appena scalfiti, il numero di parlamentari è quello di sempre, le province sono vive e vegete, e noi cittadini - ancora una volta - siamo costretti a votare con il «porcellum», senza poter scegliere i parlamentari che ci governeranno nei prossimi cinque anni. Più utile è invece riflettere sull’impressionante dimostrazione di irriformabilità dell’Italia di cui l’esperienza del governo Monti è stata la testimonianza vivente.

Nato da una crisi finanziaria che né Berlusconi né Tremonti apparivano in grado di controllare, il governo Monti ha evitato all’Italia il baratro del default, ha ridato un po’ di credibilità alle nostre istituzioni, non solo all’estero ma anche all’interno (un merito, quest’ultimo, spesso dimenticato). Ma riconosciuto questo, e non è poco, è difficile non vedere gli enormi limiti che hanno caratterizzato l’azione di questo governo.

Trascuro il prezzo che l’aumento delle tasse ha fatto pagare alle famiglie, sia sotto forma di maggiori costi sia sotto forma di chiusura di attività e perdita di posti di lavoro. Ammettiamo per un momento che quel prezzo fosse inevitabile, che non ci fossero alternative. Resterebbe però la domanda: e su tutto il resto?

Su (quasi) tutto il resto il governo ha brillato per la debolezza delle sue iniziative. Nessuna riforma incisiva in materia di liberalizzazioni. Nessuna vera semplificazione degli adempimenti burocratici di contribuenti e imprese. Nessuna effettiva dismissione del patrimonio immobiliare. Una serie di promesse sui tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione che, purtroppo, non hanno cambiato la situazione di chi lavora per il settore pubblico. Una campagna ideologica e moralistica contro l’evasione fiscale senza nessuna restituzione ai cittadini, e soprattutto a chi produce, dei proventi della «lotta» agli evasori. Una legge anticorruzione che non impedirà a centinaia di politici condannati di ricandidarsi.

Su tutto questo non fatto, o fatto e non finito, dovremmo riflettere. A chi dobbiamo l’ennesima «legislatura sprecata»?

Sicuramente ai partiti, alla pessima qualità del ceto politico. Ma forse, un po’, anche al governo dei tecnici. Da un governo di professori, svincolato dai partiti e chiamato a «salvare il Paese», come cittadino mi sarei aspettato qualcosa di più, o meglio qualcosa di diverso. Convincendo la destra, il centro e la sinistra a sostenere un governo di salvezza nazionale, il presidente Napolitano aveva creato condizioni assolutamente eccezionali e, per così dire, imperdibili se non irripetibili. Nella finestra di opportunità offertagli dal capo dello Stato, il governo tecnico avrebbe potuto fare scelte alquanto più coraggiose di quelle che ha fatto. Avrebbe potuto mettere i partiti spalle al muro, parlare chiaro al Paese, e procedere per la strada delle riforme radicali di cui l’Italia ha bisogno. Non so perché non l’abbia fatto, probabilmente per la voglia di entrare in politica di alcuni suoi ministri, e perché da tale voglia, a un certo punto, è stato contagiato anche il presidente del Consiglio. All’inizio Monti era o poteva sembrare come Cincinnato, strappato ai suoi campi per salvare la Patria, e ritornato ad arare la terra appena compiuta la sua missione. Poi non lo è stato più, e da quel momento i partiti sono tornati a dirigere le danze. Peccato, perché se Monti fosse rimasto Cincinnato oggi forse l’Italia avrebbe qualche problema in meno. Mentre oggi, temo, rischia di trovarsi solo con un politico in più.