Massimiliano Castellani, Avvenire 23/12/2012, 23 dicembre 2012
IL DOPPIO TRIPLO DEL SALTATOR GENTILE
Centomila sguardi posati su di me, ma in pedana sono solo… Davanti a me ho 41 metri e 20 centimetri che colmerò con venti passi nell’arco di 6 secondi. Al termine della corsa mi staccherò da terra. Un balzo e si realizzerà un gesto capace di decidere il mio destino…». È un balzo solitario, staccando dalla pedana della memoria, quello che finalmente è riuscito a compiere l’olimpico del salto triplo Giuseppe Gentile: il secondo uomo, dopo il polacco Jozef Schmid, ad aver superato la barriera dei 17 metri, Olimpiadi di Città del Messico 1968. Un balzo lungo quarant’anni, cominciato da bambino, «nel giardino di casa, a Roma, quartiere Montesacro», quando la prima impresa per tentare la scalata alla “gloria” era riuscire a saltare una ringhiera a grata quadrata, «quella resta la misura con cui continuo a confrontarmi ancora oggi».
Parla lentamente, con un piglio filosofico che ha ereditato dal prozio Giovanni Gentile. Anche Giuseppe arriva dalla Sicilia, dalla stessa Castelvetrano che ha dato i natali al «padre del neoidealismo» e anche al suo papà Vincenzo («Prefetto, addetto alla guardia personale del duce, ma che con il suo spirito critico da fervente cattolico non poteva che condannare gli orrori del fascismo») e a mamma Bianca. Un’infanzia normale fino alla folgorazione per l’atletica, avvenuta al buio di un cinema di periferia. «Si chiamava Cinema Espero e il film che diede una scossa al mio destino fu Pelle di rame. Un giovane Burt Lancaster interpreta il ruolo del grande atleta pellerossa Jim Thorpe, protagonista assoluto delle Olimpiadi di Stoccolma 1912. È stato vedendo il “Lancaster-Thorpe” saltare per tutta la durata di quella pellicola che presi la mia decisione: impegnarmi nello sport per conseguire dei risultati». Il giovane Gentile non pensava alla vittoria, alla fama, al denaro, perché dentro di sé covava già il germe dell’If di Kipling: «Se sai incontrarti con il Successo e la Sconfitta. E trattare questi due impostori allo stesso modo… – rilegge a memoria – . Così ho fatto, ma ci sono arrivato con il tempo, dopo aver lottato per anni contro il passato e un trauma da rimuovere: non aver dato quanto era nelle mie possibilità». Alla soglia dei 70 anni (li compie il 4 settembre 2013) e a 40 esatti dall’addio all’atletica, l’ex ragazzo prodigio del salto triplo è ricorso alla scrittura e a un libro biografico La medaglia (con)divisa (Fuori Onda).
«Scrivere è stato terapeutico – confessa –. Mi ha permesso di ricollocare fatti e persone al posto giusto e di fare finalmente pace con me stesso». I primi fatti risalgono al debutto al Cus Roma.
«Con me si allenavano ragazzi gajardi che poi sono diventati politici, magistrati, intellettuali, come il compianto professor Renato Funiciello (geologo) o dirigenti sportivi come Mario Pescante, attuale vicepresidente del Cio ( Comitato Olimpico Internazionale) che in principio è stato anche un buon atleta». È stato qualcosa di più, Giuseppe Gentile; contagiato dalla “febbre del salto”, al popolarissimo calcio o agli sport di élìte della borghesia romana preferì, come il pellerossa Thorpe, l’entrata nella tribù dei “puzzapiedi”: «Ci chiamavano così a noi dell’atletica. Per me invece era un onore far parte di quella tribù e del “trittico”, assieme al consiliori Claudio Peluso e al mio “eterno allenatore” Gigi Rosati». Con quest’ultimo, a Formia, nell’avanguardistico Centro Federale della Fidal, cominciò la preparazione del diciottenne destinato a presentarsi all’appuntamento con la storia: le Olimpiadi di Città del Messico 1968. «Ero tutto concentrato sulla pedana, consapevole di essere cresciuto tanto in quegli anni come atleta, ma anche di essere ancora distante da quel salto di 17,03, il primato mondiale di Schmid. La contestazione studentesca a Roma mi aveva appena sfiorato, così come a Città del Messico non avevo realizzato la portata rivoluzionaria del gesto antirazzista che le “Pantere Nere” Smith e Carlos fecero dal podio. Ma ancora peggio, mi era scivolata via veloce anche la tragedia del massacro di Plaza de las tres culturas ». Quel mercoledì di sangue (2 ottobre 1968), in cui l’esercito messicano aveva fatto fuoco su cinquemila persone, lasciando a terra centinaia di morti, per lo più lavoratori e studenti. Vittime innocenti della repressione, ragazzi anche più giovani dell’azzurro Gentile che a Città del Messico due anni prima della «partita del secolo» – Italia-Germania 4-3 semifinale del Mundial 1970 – divenne il protagonista de «La Gara».
E il 16 ottobre, con un solo e inaspettato salto, stabilì record olimpico e del mondo: 17,10.
«Vissi tutto in completa trance agonistica. Il mondo, che prima mi pesava come un macigno, d’incanto divenne leggerissimo sotto ai miei piedi... Un sogno. Mi risvegliai all’abbraccio del mio amico, il saltatore Felipe Areta che da lì a poco sarebbe andato a gareggiare per “conto di Dio”.
Oggi è sacerdote, direttore di un istituto cattolico a La Coruña». Sorride Gentile al ricordo di don Felipe, mentre avverte ancora i crampi di quella notte prima della finale, quando tra incubi e spasmi si sentì inghiottito da una sorta di effetto Montezuma. «Se il giorno dopo sono riuscito a gareggiare lo devo a Crespi, il massaggiatore e “papà” della Nazionale di basket, che con una limonata e soprattutto con il suo conforto mi vegliò come un figlio, lì nella mia cameretta del Villaggio olimpico». Il mattino seguente, il risveglio del leone barbuto, con secondo ruggito da record: salto pazzesco da 17,22. L’Italia trepidava per il “moro” Giuseppe, storica e ormai sicura medaglia d’oro nel triplo. E invece accadde l’impossibile: il brasiliano Nelson Prudèncio, ancora più a sorpresa, volò fino a 17,27. Ma gli occhi increduli di Gentile non avevano ancora visto tutto: sulla sabbia le orme del campione olimpico sarebbero state quelle impresse dal russo Saneev che stabilì un fantastico 17,39. «Ero deluso, sconfitto.
Indifferente, al ritorno, persino alla folla dei tifosi che a Roma mi aspettava come un eroe all’aeroporto. Terzo dopo aver fatto due record del mondo, assurdo, ripetevo a me stesso. Avevo 25 anni e davanti a me un muro di altri 4 prima di arrivare all’appuntamento di Monaco».
L’insostenibile pesantezza dell’essere ad un tratto venne interrotta da un altro balzo inatteso, quello nel poetico cinema di Pier Paolo Pasolini che lo volle a tutti costi per Medea nel ruolo di Giasone, al fianco della divina Maria Callas. Il “triplo” a quel punto divenne Pasolini, la Callas e Gentile. «Pier Paolo e Maria erano due creature delicate. Pasolini era curioso di conoscere il mio mondo, di cui era pazzamente innamorato. Il fatto che fossi un atleta credo sia stata anche l’unica ragione per cui ha scelto un “cane d’attore” come me...», dice ridendo. Dopo l’ultimo ciak il ritorno in pedana, con la voglia di spaccare il mondo; ma furono i muscoli a frantumarsi prima di arrivare a Monaco ’72. La strage degli atleti israeliani, per mano dei terroristi di “Settembre Nero”, Gentile la visse da Roma dove era rientrato portandosi dietro una valigia zeppa di rimpianti.
«Oggi finalmente sono libero, il tempo mi ha allenato ad accettare tutte le mie sconfitte. La medaglia “condivisa” è quel bronzo di Città del Messico che ho fatto spezzare e fondere da un amico orafo: ora le due facce originali le custodiamo una io e l’altra il mio caro Gigi Rosati». Si ferma un attimo emozionato, poi l’ultimo balzo da campione: «La vita è questione di mete e di obiettivi e il denaro non deve essere il mezzo con cui misurarsi. La mia misura è rimasta sempre quella, la ringhiera che saltavo da bambino».