GINEVRA BOMPIANI, la Repubblica 23/12/2012, 23 dicembre 2012
Una casa editrice – nottetempo – che compie dieci anni; un padre importante: Valentino Bompiani, scomparso vent´anni fa; un compagno – Giorgio Agamben – con cui per anni ha condiviso passioni, interessi, amore; una decina di libri – tra saggistica e narrativa – tra cui, ricordo, Le specie del sonno (Quodilibet) che entusiasmò Italo Calvino e l´ultimo, appena pubblicato da Sellerio: La stazione termale, un lungo racconto su come un ambiente di agi e rilassatezza si possa trasformare in un luogo di sofferenza
Una casa editrice – nottetempo – che compie dieci anni; un padre importante: Valentino Bompiani, scomparso vent´anni fa; un compagno – Giorgio Agamben – con cui per anni ha condiviso passioni, interessi, amore; una decina di libri – tra saggistica e narrativa – tra cui, ricordo, Le specie del sonno (Quodilibet) che entusiasmò Italo Calvino e l´ultimo, appena pubblicato da Sellerio: La stazione termale, un lungo racconto su come un ambiente di agi e rilassatezza si possa trasformare in un luogo di sofferenza. Ginevra Bompiani è una donna che fa. Insegna letteratura inglese. Dirige nottetempo, dove insieme ai libri di successo di Milena Augus e Luciana Castellina, pubblica una saggistica raffinata, tra cui Giorgio Agamben e Alfonso Berardinelli. Vive a Roma in una bella casa ai margini di Trastevere. La incontro in una rarefatta mattina di dicembre. È una donna gentile. Premurosa. Preoccupata. Confessa, mentre prepara un caffè, di non possedere memoria. Mi viene di pensare che il distacco dal tempo libera da certe dipendenze: «Non è che non ricordi, ma è come se all´episodio rievocato non sappia mettere il cartellino con le date». A proposito di date nottetempo compie dieci anni. «Sì, la fondammo insieme a Roberta Einaudi e altri amici. Fu un gioco, una scommessa, poi un impegno». Lei aveva alle spalle l´esempio editoriale di suo padre, Valentino Bompiani. I confronti possono essere complicati, perfino impietosi. «Non sono mai facili. Tanto è vero che ho impiegato un bel po´ a decidermi. Poi nel 1998 la Bompiani organizzò una celebrazione per mio padre che se fosse stato vivo avrebbe allora compiuto cento anni. Io e mia sorella siamo rimaste un po´ defilate, come due spettatrici che ascoltavano le testimonianze degli altri. E questo ha fatto scattare in me una cosa insolita. Improvvisamente ho visto mio padre con occhio diverso. Più esterno. Senza sentirmene emotivamente coinvolta». Che ricordo ha di lui? «Un uomo intelligente e tosto. Grandissimo lettore. Un seduttivo dotato di una natura fortissima che usava in casa editrice. Sapeva mettere a frutto perfino i suoi difetti». E tra questi? «Beh, soprattutto in alcune circostanze, era collerico». Anche con lei? «Con me aveva maniere brusche. A un certo punto finito il liceo e dopo un anno all´estero, decise che non avrei fatto l´università, perché un lavoro c´era già in casa editrice. Cominciai così a correggere le voci del Dizionario. Poi passai all´ufficio estero. In quel periodo arrivò come redattore Umberto Eco. Si distingueva per la sua vasta cultura, per il modo agile con cui poteva passare da San Tommaso a Joyce. E io pensai: come farò un domani, ignorante come sono, a diventare il capo di questo qua? Mollai la casa editrice. E questa volta senza soldi, né protezione tornai a Parigi». Un atto di ribellione. «Non lo so. Certo un atto necessario per poter riprendere a pensare. Mi iscrissi all´università con l´intenzione di laurearmi in psicologia». Voleva fare l´analista? «Era un obiettivo possibile. Poi ci ho ripensato. Negli anni in cui sono stata in analisi compresi che non era il mestiere adatto». Perché? «Non volevo scambiare il mio posto con quello dell´analista. Preferivo, nonostante le dipendenze che l´analisi crea, la mia libertà alla sua». Di che libertà parla? «Libertà di parola, di espressione, di associare le idee. L´analista invece ha potere ma non ha libertà». Il potere ha vincoli che la libertà non conosce? «È auspicabile. Un potere libero rischia di essere arbitrario. La libertà è un concetto strano. Io ne appresi il senso assistendo a una bellissima lezione di Gilles Deleuze su Leibniz e la libertà appunto». Cosa le insegnò? «Ci spiegò che quello che sembrava il filosofo della monade e del determinismo era in realtà un grande filosofo della libertà. Ci disse: la libertà è una piccola frangia mobile che si crea attorno al determinismo. Sta a noi allargarla». Ha conosciuto Deleuze? «Molto bene negli ultimi anni della sua vita. La prima volta che lo incontrai fu a una cena a casa del mio amico Jean-Paul Manganaro che tra l´altro gli aveva fatto conoscere Carmelo Bene. Fu una serata meravigliosa, ci sentivamo tutti a nostro agio in una specie di armonia delle parole. Poi, al momento di andarsene, Deleuze si sentì male. Era già sul pianerottolo. Jean-Paul gli portò una sedia e lo vidi accasciarsi di spalle tentando di riprendere fiato». Deleuze scelse alla fine di suicidarsi. Come giudica quel gesto? «Si gettò dalla finestra del bagno. E se ripenso a quell´atto credo che lui l´abbia compiuto per almeno due ragioni. La prima è che l´amico François Châtelet soffriva della sua stessa malattia ai polmoni. Ne aveva visto il lento degenerare e infine la terribile dipendenza dalle macchine. Sapeva, lui che era stato operato di tracheotomia, cosa lo aspettava». E la seconda ragione? «Ricordo che una delle ultime volte in cui lo vidi mi disse che stava scrivendo un libro sul "virtuale", tanto che gli regalai alcuni romanzi di Philip Dick che lui non conosceva. Poi ci vedemmo un´ultima volta, poche settimane prima che si suicidasse. Gli chiesi del libro e mi rispose che non aveva trovato una forma da dargli. Lo disse con un tono di disperazione che mi morse il cuore». La scrittura è una forma di vita? «Lo è, sicuramente lo è per me». Cosa la lega al gesto della scrittura? «Più che un gesto è un movimento interiore. O, come disse Anna Maria Ortese, un modo per essere a casa». Ha dei momenti in cui scrive? «Nessuna disciplina. Scrivo a ondate». La spaventa scrivere? «Non ne ho paura, né mi procura dolore. Non ho mai capito la sofferenza della scrittura. Mi chiedo perché uno dovrebbe fare qualcosa che lo fa soffrire. Scrivo quando ho il tempo, l´agio, il silenzio interno giusto. Ne ho bisogno per recuperare la mia vita. Che è come spinta dai venti». Il suo nuovo romanzo si svolge in una stazione termale. Cos´è? Il bisogno di curarsi, di preservarsi, di lottare contro il tempo? «Forse tutte queste cose. Ma nella consapevolezza dell´illusione e del vano lottare. In fondo quel luogo non è così distante da un campo di concentramento». Però in uno ci si rinchiude nell´altro si è rinchiusi. «È la differenza vera. Come diversa è la violenza che vi si esercita». In un suo altro romanzo – L´orso maggiore – si evoca la figura di sua madre. Che donna è stata? «Molto concreta e schiva. Adorò mio padre per tutta la vita. Ne fu pazzamente innamorata. Le scrissi una lettera che lei, con un gesto davvero singolare, volle conservare in cassaforte». «La precisione introspettiva è il fine cui tende lo scrivere di Ginevra Bompiani», lo ha detto Calvino. «Mi lusinga, ovviamente. L´intelligenza di Calvino, quella sì, era di una precisione assoluta. Si avverte oggi la mancanza dell´intelligenza». E di chi la esibiva. Ne ricorda qualcuno? «Mi viene in mente Rodolfo Wilcock, con quel suo profilo di uccello. Fu un meraviglioso irregolare della letteratura. Aiutò me e Giorgio Agamben nella creazione del "Pesanervi", una collana di letteratura fantastica che facemmo per Bompiani. Ricordo che Wilcock diceva: Ginevra dirige il Pesanervi e Giorgio dirige Ginevra. Pubblicammo, tra gli altri, Beckford, Jarry, Bioy Casares che allora nessuno conosceva». Insieme ad Agamben lei partecipò a un seminario di Martin Heidegger. «Furono due i seminari – che Heidegger tenne a Le Thor, un paesino della Provenza – ai quali partecipai. In entrambi giunsi negli ultimi tre giorni. Non parlavo tedesco e Heidegger che capiva il francese a sua volta non lo parlava. Fui dunque una specie di testimone muta. E affascinata». Cosa la colpì di quest´uomo? «Subii l´effetto di un contrasto. Una mattina tardi lo vidi in paese giocare alla pétanque. E sembrava davvero un vecchietto con cui ti potevi amabilmente misurare con le bocce. Ma i suoi occhi facevano paura». In che senso? «Non era l´occhio bonario, avaro, sornione del contadino. C´era qualcosa di inquietante». Cosa pensa della vicenda che lo legò al nazismo? «Ho sempre trovato esagerato, lo dico senza alcuna competenza, l´accanimento. E mi viene da pensare appunto ai cani che si gettano all´inseguimento della volpe – perché lui era proprio una volpe – e la sbranano, per liberarsi della sua intelligenza, del suo sguardo terribile e passare ad altro. Per quel che ne so il suo accecamento politico durò sei mesi. E a me è parsa una forma di stupidità. Comunque in quei seminari ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo straordinario». Che anno era? «Oddio, non ricordo, mi pare fossimo alla metà degli anni Sessanta. Non ho una grande dimestichezza con gli anni». Che rapporto ha con il tempo? «Lo stesso che ho con lo spazio: di disorientamento». Da analista mancata come interpreterebbe la cosa? «Accade come per l´inconscio che non ha né tempo né luogo. Forse la mia vita è in un perenne presente. Forse non ho molto interesse per la memoria. Ne ho poca e l´ho spesso sostituita con l´invenzione. Ma questo non significa che il passato sparisca. Se no non sarei qui a raccontarmi. Dopotutto, ci sono figure che restano indelebili». A chi pensa? «A Giorgio Caproni con cui si andava a passeggiare dalle parti della Moschea, perché è il solo punto a Roma dove non c´erano macchine. A Elsa Morante, a Ingeborg Bachmann, a Giovanni Urbani, a Pier Paolo Pasolini. Tutti amici che vedevo spesso insieme ad Agamben. Ci si può aspettare che ogni tanto il passato irrompa con il suo carico di felicità e infelicità. Ma non è la memoria a evocarlo. Né la nostalgia. È una spinta che nasce fuori dal tempo». Che in qualche modo si lega al mito? «Ogni amicizia vera, ogni presenza significativa, contiene una parte di mito». Tra gli amici non ha annoverato Moravia. «Perché non lo siamo mai diventati. Abbiamo continuato a darci del lei per tutta la vita. È stato una delle colonne della casa editrice. Ma i rapporti con mio padre, per quello che ne so, furono sempre freddi. Formali. Una volta mi disse scherzando: Moravia non mi ha mai offerto un caffè. Però una cosa mi ha sorpreso di recente. Leggendo le lettere che scriveva a Elsa Morante (pubblicate da Einaudi) ho colto un affetto profondo. Mentre Elsa sosteneva che quell´uomo non l´aveva mai amata».