Pietro Citati, Corriere della Sera 22/12/2012, 22 dicembre 2012
HUCKLEBERRY FINN
Huckleberry Finn, il più grande personaggio di Mark Twain (Le avventure di Huckleberry Finn, Einaudi, traduzione di Enzo Giachino, introduzione di T. S. Eliot, pagine 356, 12) appare per la prima volta nelle Avventure di Tom Sawyer (traduzione di Enzo Giachino, 10). Figlio dell’ubriacone ufficiale del paese, Huck era cordialmente detestato e temuto da tutte le madri, perché era un fannullone, un senza-legge, uno screanzato, e perché tutti i loro figli lo amavano senza riserve, si dilettavano della sua compagnia e avrebbero voluto avere il coraggio di vivere come lui. Quando faceva bello, Huck dormiva sugli scalini di qualche casa: quando pioveva, in qualche botte vuota. Non era costretto ad andare a scuola o in chiesa, non aveva padroni, non doveva obbedire a nessuno. Andava a pescare e a nuotare dove e quando voleva, e ci restava quanto gli piaceva. Nessuno gli proibiva di fare a pugni: poteva restare alzato quando gli pareva; era sempre il primo ragazzo che di primavera usciva a piedi nudi, e l’autunno l’ultimo a infilare le scarpe.
Alla fine del Tom Sawyer, Huck diventò ricco, grazie a un tesoro scoperto in una grotta. La vedova Douglas lo prese sotto la sua protezione: gli aprì le porte della società, anzi ve lo spinse dentro, ve lo scagliò nel bel mezzo, causandogli sofferenze che non era quasi in grado di sopportare. I servi della vedova lo mantenevano sempre lindo e ravviato, ben pettinato e spazzolato: lo mettevano a letto di sera tra lenzuola odorose che non avevano la minima macchia. Doveva mangiare servendosi di coltelli e forchette, usare tovaglioli, tazza e piatto, andare a scuola, parlare con tanta raffinatezza, che le parole gli diventavano insipide in bocca. Dovunque volgesse lo sguardo, vedeva le inferriate e le manette della civiltà, che lo imprigionavano inesorabilmente in una gabbia. Ma presto cominciò ad abituarsi a leggere e a scrivere, e a recitare la tavola della moltiplicazione, e ad accettare le maniere della vedova Douglas. «Certo che vivere in una casa e dormire in un letto — Huck diceva — era un tormento, e prima che cominciasse a far freddo, ogni tanto scappavo e andavo a dormire nei boschi, e così potevo riposarmi e riprendere coraggio».
Una mattina, fuggì. La vedova lo cercò dappertutto: inutilmente. L’intero paese condivise la sua ansia. Il terzo mattino di buon’ora, Tom Sawyer andò a curiosare tra le vecchie botti vuote che si trovavano presso il mattatoio, e in una di queste scoprì il fuggitivo. Huck aveva dormito là, fatto colazione con quello che era riuscito a rubacchiare, e adesso se ne stava, tranquillo e beato, a farsi una pipata. Era tutto sporco, coi capelli spettinati, e indossava quegli indumenti sbrindellati che, nei suoi giorni di felice libertà, lo avevano reso così pittoresco. Tom gli parlò di tutte le noie che aveva procurato, e lo esortò a tornare a casa. La faccia di Huck si rabbuiò e assunse un’aria infelice.
Infine, disse: «No, Tom, non insistere. Mi ci sono provato, e non ci riesco, non ci riesco proprio, Tom. Non fa per me, non sono abituato a vivere così. La vedova è buona con me, e mi vuol bene, ma io non ce la faccio. Mi fa saltare giù dal letto il mattino, sempre alla stessa ora, poi mi obbliga a lavarmi e poi mi pettinano, e non mi lascia dormire nella legnaia, e devo portare quei dannati vestiti, che mi pare di soffocare. Mi sembra che non mi lasciano passare l’aria, e poi sono così maledettamente belli che non oso sedermi per terra, o stendermi, o rotolarmi come facevo una volta. Devo andare in chiesa, e sudare, e rompermi la testa... io le odio quelle noiose prediche! Non posso neanche acchiappare una mosca, non posso ciccare, e devo portare le scarpe ogni domenica. La vedova mangia a suon di campanella, va al letto a suon di campanella, si alza a suon di campanella, e tutto è così regolare che non posso, non riesco a farcela».
«Tutti vivono così, Huck», disse Tom Sawyer. «Tom — rispose Huck — non me ne importa niente. Io non sono come tutti, e non ce la faccio. È una cosa terribile sentirsi legato in questo modo. E devo chiedere il permesso per andare a pescare: che il diavolo mi porti se non devo chiedere il permesso per tutto. E poi devo parlare così fine, che mi sento gelare le parole in bocca, tanto che devo andare in soffitta, e per qualche minuto mettermi a parlare come ho parlato sempre, per sentire il gusto, se no sarei già morto, Tom. La vedova non vuole lasciarmi fumare, non vuole che urli, non vuole che resti a bocca aperta, o che stiri le braccia, o che mi gratti davanti alla gente». «E quello che batte tutto — aggiunse Huck — è che lei non comanda, non urla, ma solo mi prega. Mai visto una donna così. Sono dovuto scappare, Tom, non potevo far diverso. E poi c’è la scuola che presto si riapre, e io devo magari andarci. Credi a me, Tom, essere ricchi non è poi quella fortuna che si crede. No, Tom, non voglio essere ricco, e non voglio vivere in quelle dannate case che ci soffoco dentro. A me piacciono i boschi, e il fiume, e le botti, e voglio vivere così».
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Huck immaginò di fuggire un’altra volta con Tom Sawyer, che progettava continuamente avventure e birichinate, come gli enfants terribles della narrativa ottocentesca. Eppure Tom non era molto diverso dalla vedova Douglas. Come lei, credeva soltanto nei libri — questa dannazione degli uomini. Le avventure che proponeva a Huck erano copiate da vecchie storie di pirati e di masnadieri, dalle Mille e una notte e dal Don Chisciotte: immaginazioni romanzesche, farneticazioni letterarie, che rinchiudevano nelle catene della civiltà come la Bibbia e le preghiere mormorate a bassa voce dalla vedova Douglas.
In realtà, Huckleberry Finn era l’anti-Tom Sawyer. Egli era un meraviglioso realista, per il quale esisteva soltanto la difesa delle cose che si vedono, si sentono e si toccano. Il suo era lo sguardo degli adulti, lucido e crudele, ma non amaro e disperato: senza nessuna di quelle illusioni, di quelle consolazioni sentimentali, di quelle medicine ideologiche, con cui cerchiamo di difenderci dalla luce splendida e accecante della realtà. Qualcuno avrebbe potuto sostenere che il dolore incrinava la sua gioia di vivere. Egli era orfano di madre; e una notte il coltello del padre alcolizzato si levò sopra di lui per ucciderlo. Ma Huck non provava nessun desiderio di amore materno; non conosceva il bisogno di una figura paterna; considerava i genitori come uno dei tanti fastidi sul cammino della vita. Il suo animo era libero da ogni nostalgia e sofferenza. La realtà gli ispirava soltanto allegria; e quella pazienza amorosa, quella duttile capacità di adattamento, che posseggono i ragazzi e i vecchi geniali.
Nella continuazione del libro, la figura di Tom venne sostituita da quella di Jim, lo schiavo negro fuggiasco. Alle fantasie libresche di Tom, Jim surrogò la sua fantastica fiducia nella magia, che colmava la sua intelligenza di negro. Tutto portava male. Non bisognava mai raccontare le cose che si preparano per il pranzo, perché portava male; se un morto non era stato sepolto, portava male a tutti i vivi; e toccare con le mani nude una spoglia di serpente risvegliava il turbine della superstizione.
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Le avventure di Huckleberry Finn sono, in primo luogo, il libro del grande fiume, o dei grandi fiumi, che si incontrano e si fondono nel cuore vertiginoso dell’America. Il tempo scorreva come l’acqua: anzi era la stessa acqua. «Trascorsero due o tre giorni e altrettanti giorni, e direi quasi — commenta Huck — che ci nuotavano accanto, tanto scivolavano via tranquilli, uguali, incantevoli». Era solenne scendere a valle per quel gran fiume tranquillo, stesi sulla schiena a guardare su le stelle: «Non si aveva molta voglia di parlare forte, e non capitava sovente che ci mettevamo a ridere: al più, una risatina soffocata, in gola». Il fiume aveva l’aria di distendersi per miglia e miglia. La luna era così chiara che Huck poteva contare tutti i tronchi d’albero che galleggiavano sul fiume, neri e tranquilli a centinaia di iarde dalla riva.
Discendendo il fiume in zattera, Huck e lo schiavo negro navigavano di notte e si fermavano di giorno, cercando di nascondersi dai bianchi. Appena la notte stava per finire, interrompevano il viaggio, e si ormeggiavano, sotto i rami dei giovani pioppi e salici. Tendevano le lenze, pescavano magnifiche perche, pesci persici, piccoli pesci gatti, o scivolavano in acqua per nuotare. Restavano seduti sul fondo sabbioso, dove l’acqua arrivava a mezza gamba. Non il minimo rumore — tranquillità assoluta — come se tutto il mondo dormisse — solo qualche rana-toro che muggiva. Guardando sulle acque, la prima cosa che si notava, era una specie di linea scura — i boschi sull’altra riva. Non si distingueva altro. Poi una striscia pallida nel cielo, che si allargava, si allargava sempre più, e poi il fiume si ammorbidiva in lontananza, e non era più nero, ma grigio, e si potevano vedere piccole macchioline scure che si muovevano lente e lontane, barche, piccoli scafi, e lunghe linee nere, zattere. Qualche volta si sentiva un remo che cigolava, o voci confuse. Era tutto tranquillo.
Appena calava la notte, Huck e Jim prendevano il largo, e quando avevano portato la zattera verso il centro del fiume, la lasciavano navigare dove la corrente la portava. Accendevano la pipa, e si mettevano a parlare di tutto quello che gli passava per la testa. Era una vita magnifica vivere sopra una zattera. Sulla testa il cielo, tutto pieno di stelle, e loro stessi sulla schiena: guardavano lassù, e discutevano se le stelle erano state fatte, o erano semplicemente spuntate come fiori, così da sole.
Pietro Citati