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 2012  dicembre 22 Sabato calendario

A guardare la scena, è difficile non pensare al «partito dei pubblici ministeri». Uno, Antonio Ingroia, che arringava dal palco accompagnato da applausi continui; altri due, Antonio Di Pietro e Luigi de Magistris, seduti in prima fila ad ascoltare, pronti ad affidare all’oratore la guida del nuovo schieramento politico

A guardare la scena, è difficile non pensare al «partito dei pubblici ministeri». Uno, Antonio Ingroia, che arringava dal palco accompagnato da applausi continui; altri due, Antonio Di Pietro e Luigi de Magistris, seduti in prima fila ad ascoltare, pronti ad affidare all’oratore la guida del nuovo schieramento politico. Vent’anni dopo, o poco meno, c’è chi pensa di ricominciare da dove si partì all’indomani di Mani Pulite, la cosiddetta Seconda Repubblica contrassegnata — anche — dai magistrati che diventano politici di prima fila. Fondatori e referenti carismatici di partiti e movimenti. Oggi sembra un paradosso, e chi non lo ricorda si stupirà, ma a proporre a Di Pietro di cambiare lavoro e diventare ministro fu Silvio Berlusconi. Il quale voleva affidare a un rappresentante della pubblica accusa ancora in servizio nientemeno che il ministero dell’Interno. Era il 1994. Il magistrato rifiutò dopo essersi consultato con il suo procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, e rinviò il suo salto di un paio d’anni. Entrò nel governo Prodi nel 1996, dopo aver vestito per un paio d’anni l’abito dell’imputato in attesa delle assoluzioni. Poi il Pds lo candidò al Senato, e lì prese il via la sua carriera partitica, fino all’Italia dei Valori che oggi si prepara a sostenere Ingroia. Proprio nelle liste di Di Pietro, Luigi de Magistris approdò al Parlamento europeo nel 2009, senza soluzione di continuità con il precedente incarico di giudice, seppure «in esilio» a Napoli dopo le azioni disciplinari e le bacchettate del Csm che l’avevano costretto a lasciare il ruolo di pm in Calabria. L’anno scorso si consumò l’emancipazione dall’ex collega, con la candidatura vincente a sindaco di Napoli, parte integrante di quel «movimento arancione» che fin da allora aveva diverse anime. Una delle quali, capeggiata da de Magistris, oggi ha proposto a Ingroia la leadership del raggruppamento che si proclama «alternativo al berlusconismo e al montismo». Così s’è arrivati a lui, il pubblico ministero antimafia arrivato sul palco del teatro Capranica (con l’accompagnamento musicale di Bruce Springsteen) direttamente dall’inchiesta sulla trattativa tra Cosa nostra e istituzioni al tempo delle stragi, se si escludono i due mesi trascorsi in Guatemala ma in costante contatto con l’attualità politica italiana. La continuità, davanti a lui che parla e agli altri due che applaudono, si tocca quasi con mano. Anche se si sta realizzando un passaggio che nelle intenzioni di tutti dovrebbe essere di discontinuità dal passato. E che però, in una parte dell’opinione pubblica e degli schieramenti, resta ancorato all’affidamento delle proprie speranze a un magistrato. Un pubblico ministero, per l’esattezza. Non si tratta solo di mettere qualche giudice in lista, ché quello è sempre accaduto e probabilmente seguiterà ad accadere. E non è nemmeno così strano che accanto agli avvocati, ai medici e a tanti altri professionisti o rappresentanti dei diversi settori della società ci siano pure dei magistrati chiamati a legiferare. E magari a governare. La particolarità sta nel pm che improvvistamente viene visto come il salvatore della patria, il leader considerato in grado di mostrare affidabilità, raccogliere consenso e guidare il cambiamento (o presunto tale). E’ una delle anomalie italiane: la politica costretta a rifugiarsi in chi indagava sui guasti della politica, fossero la corruzione o le connivenze coi poteri occulti e la criminalità organizzata. Dell’opportunità che i magistrati compiano questo passo, mettendo così a rischio l’obiettività del lavoro svolto in precedenza e alimentando i sospetti di chi riteneva che facessero politica anche con la toga sulle spalle, molto s’è detto e si continuerà a dire. Con le consuete divisioni tra chi pensa che sia giusto e chi no. Molto meno s’è dibattuto sul fatto che i partiti, oggi soprattutto i più piccoli o che si dicono espressione della «società civile», si ritrovano a confidare nelle capacità aggregatrici e propositive di chi esercitava il «controllo di legalità» sul potere. E’ come se la politica continuasse ad affidare una delega che sembra figlia dell’incapacità di risolvere certi problemi in proprio, e di avanzare proposte credibili. Come se di fronte a un elettorato che reclama pulizia non si trovasse di meglio che consegnare la ramazza a chi, fino a poco prima, per mestiere maneggiava il codice penale. Sembra un problema della politica, prima ancora che dei pm investiti del ruolo di condottieri politici. Dovuto anche al fatto che «il mondo della giustizia è diventato un osservatorio privilegiato delle carenze di regole, legalità e diritti dovute alle inefficienze della politica». E’ quel che pensa e dice Livio Pepino, magistrato in pensione da due anni e promotore di Cambiare si può, altro movimento in formazione che conta di presentarsi alle prossime elezioni. gbianconi@corriere.it