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 2012  dicembre 17 Lunedì calendario

Maroni, l’ex superministro alle prese con i colonnelli - Ha preso davvero una cantonata il Cav quando ha proposto a Ro­berto-Maroni di rinnovare l’alle­anza che già ci fu tra lui e Umberto Bos­si

Maroni, l’ex superministro alle prese con i colonnelli - Ha preso davvero una cantonata il Cav quando ha proposto a Ro­berto-Maroni di rinnovare l’alle­anza che già ci fu tra lui e Umberto Bos­si. Un errore politico e psicologico che faceva presagire il no di Bobo: «Caro Sil­vio, se ti candidi a premier, niente patti con la Lega. Non ti vogliono né i militan­ti, né gli amministratori, né i parlamen­tari ». Benvenuto invece Angelino Alfa­no. Per il Cav, una sberla in piena faccia. Berlusconi è stato ingenuo. Credeva di avere ancora a che fare con Bossi, ma aveva di fronte Maroni. Accantoniamo per ora il carattere oscillante di Bobo e ve­niamo alla sua posizione nella Lega Nord. Eletto segretario il primo luglio di quest’anno nel tumulto dell’ affaire Belsito, Maroni è stato percepito dai militanti smarriti come la ciambella di salvataggio a portata di mano. Non il capo sceso dal cielo con l’aureola dell’eroe padano che schiude gli oriz­zonti del futuro. Solo una guida transi­toria con quel che passa il convento. Lontanissimo dal carisma di Bossi. Ba­sta sentire come ne parlano capi e ca­petti leghisti sostenendo la sua candi­datura alla guida della Regione Lom­bardia: «È il meglio che c’è», «ha le car­te in regola» e cose così. Cioè, la piena consapevolezza che il loro campione non è un fuoriclasse ma un primus in­ter pares , dietro al quale scalpitano ­aggressivi e con più alone- i Flavio To­si, Matteo Salvini e ruspanti vari. Al Cav è sfuggito che Maroni non è in grado di imporre la propria volontà alla Lega. Non è Bossi che decideva a capriccio e la truppa seguiva. Bobo de­ve chiedere, mediare, non alzare la vo­ce e tenere conto al millimetro dei de­siderata dei suoi colonnelli. Come un condottiere del basso impero, obbedi­sce fingendo di comandare. Gli umori profondi dei leghisti sono contrari al Berlusca, e non da oggi. La cosa con Bossi era messa a tacere dall’indiscuti­bilità del capo e oggi emerge senza re­more. Bobo deve te­nerne conto. Quindi, qualsiasi promessa Maroni gli faccia a quattr’occhi, sappia Berlusconi che, una volta tornato in sede in via Bellerio, Bobo se la rimangerà. Ondeggiare è nel suo carattere. C’è in lui una certa doppiez­za che suggerisce di diffidarne. Come altri politici di non prima grandezza, Maroni si ammanta di giustizialismo, per darsi un tono legalitario. Ed è in questo ambito che ha colpito la sua spregiudicatezza in due episodi. Un anno e mezzo fa, la Camera dove­va decidere se autorizzare l’arresto del deputato Pdl, Alfonso Papa, magi­strato in aspettativa. Papa, napoleta­no, era accusato di corruzione dal suo collega anglo-com­paesano Woo­dcock, noto per non azzeccarne una. Già questo avrebbe do­vuto mettere in guar­dia. Il Pdl era infatti orientato a negare l’autorizzazione e aveva convinto Bos­si a fare lo stesso. Bo­bo, invece, allora mi­nistro dell’Interno - e già ai ferri corti con Umberto- aveva deciso di manda­re Papa in gattabuia, persuadendo a seguirlo la stragrande maggioranza dei leghisti, noti estimatori di cappi e manette. Durante il voto, Maroni mo­strò platealmente l’indice della mano sinistra, per rendere palese all’Aula la pressione sul pulsante del sì. Fatta la bravata dichiarò: «Noi siamo coeren­ti ». Non precisò a quale sacro princi­pio. Papa passò cento giorni a Poggio­reale e poco dopo Riesame e Cassazio­ne stabilirono che Woodcock aveva ammannito la solita patacca e che il deputato era stato ingiustamente de­tenuto. Per giustificarsi, Bobo disse che lui del merito se ne infischiava, ma aveva voluto la galera per dare un segno di «legalità». Peggio il tacòn del buso , poiché non è chiaro di che legali­tà parli se la detenzione era, appunto, illecita. Passi la scontata incoerenza del politico ma se pensiamo che Maro­ni è pure avvocato, c’è da augurarsi di non incrociarlo per strada. L’altro episodio è recentissimo e ci tocca nella carne. A metà novembre si discuteva al Senato di evitare la galera ai giornalisti condannati per diffama­zione. C’era un mezzo accordo e per Alessandro Sallusti si intravedeva una speranza. Di colpo, invece, i leghi­sti di Maroni, in combutta con un tran­sfuga radicale oggi clericaleggiante, presentarono un emendamento che ripristinava i ceppi. Coperti dal voto segreto, i senatori rivelarono la loro in­tima natura approvando la proposta sbirresca. Si sa come poi andarono le co­se. La galera fu nuo­vamente cancellata, ma ci si accapigliò su questo e quello, fin­ché la legge è finita su un binario morto, Sallusti agli arresti e il Giornale nelle pe­ste. Ma torniamo al­l’emendamentoMa­roni­Rutelli.Dopo l’approvazione Sal­lusti rivelò nel suo editoriale che, il giorno precedente al voto, Maroni gli aveva mandato un suo libro accompa­gnato da una dedica affettuosa: «Buo­na lettura e buon lavoro». Ossia, falso come Giuda. Rimasto in braghe di te­la, Bobo fece una piagnucolante retro­marcia il giorno dopo con un’intervi­sta su queste pagine. «È stato un erro­re - belò - mai i giornalisti in galera. La libertà di stampa è nel Dna della Lega nord». Quando più su ho parlato di doppiezza maroniana, intendevo questo. Per concludere il periplo sulla perso­nalità politica di Maroni vanno ag­giunte due cose. La prima: è stato nei governi Berlusconi un eccellente mi­nistro sia del Lavoro sia dell’Interno, dando prova di essere più portato nel­le scelte politico-amministrative che in quelle politico-partitocratiche. L’al­tra è più delicata e oscura. Bobo ha in­fatti suscitato il sospetto in una parte della Lega di essere all’origine dello scandalo che ha travolto la famiglia di Umberto Bossi. Non ovviamente del­lo scandalo in sé, che è nelle cose, ma della sua scoperta. Per capire, biso­gna ricordare che a indagare sul teso­riere Belsito e le presunte mazzette al Trota e famiglia fu quel medesimo pm napoletano Woodcock cui Bobo, co­me abbiamo visto, aveva consegnato dieci mesi prima il deputato Papa in manette. Facendo due più due, i bos­siani pensarono a uno scambio di fa­vori: io ti ho dato Papa, tu mi dai Bossi. L’accusa, mai formulata apertamente per mancanza di prove, è però furtiva­mente circolata. Né era questa la pri­ma volta in cui fu intravisto lo zampi­no di Maroni nella logorante guerra se­guita alla malattia di Bossi, presunto prigioniero del cerchio magico guida­to dalla moglie Manuela. Già sotto Na­tale dell’anno scorso comparve, infat­ti, un articolo di Repubblica su un festi­no con droga cui avrebbe partecipato in quel di Brescia, l’allora consigliere regionale lombardo, Renzo Bossi. L’orget­ta del Trota fu smenti­ta dalla sua tutrice, l’assessore lombar­do allo Sport, Moni­ca Rizzi, che parlò di «mandanti» e «mele marce», insinuando che a dare l’offa ai giornali poteva essere solo chi aveva un piede - sottinteso, come ex mini­stro dell’Interno - negli ambienti inve­stigativi. Di vero, con ogni probabili­tà, non c’è niente. Ma se suscita questi dubbi, Maroni ha un problema.